Le origini dell’immaginario robotico giapponese, assurto alla fama internazionale negli anni ‘70 grazie ad anime come Mazinga Z di Go Nagai e Gundam di Yoshiyuki Tomino, sono il più delle volte ricollegate al periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, quando Osamu Tezuka realizzò i suoi primi manga e in particolare la serie Testuwan Atomu (1952), nota anche col titolo americano Astro Boy. Il riconoscimento dell’importanza cruciale che quegli anni ebbero per la ridefinizione della cultura nipponica, d’altra parte, ha portato spesso a trascurare una fase ancora anteriore – compresa pressappoco tra gli ultimi anni dell’epoca Taishō (1912-1926) e il secondo decennio dell’epoca Shōwa (1926-1989) –, durante la quale il tema delle creature artificiali cominciò a diffondersi in Giappone sulla scia di influssi prevalentemente europei.
L’età delle macchine
L’età delle macchine
Nell’epoca Taishō, all’alba di quella che fu definita «l’età delle macchine» (Hirabayashi Hatsunosuke, Le basi sociali del modernismo, 1930), il Giappone fu interessato da un rapido processo di sviluppo nei campi della tecnologia, dei media e dei sistemi di trasporto. L’introduzione sempre più massiccia di dispositivi artificiali stimolò una nuova coscienza critica, scientifica e artistica interessata a indagare da diverse prospettive il rapporto tra uomo e macchina, cui si legò una crescente fascinazione per la figura del robot. Una data convenzionale per le origini di questo fenomeno può essere fissata attorno al 1924, anno in cui venne rappresentato in Giappone il dramma R.U.R. (I Robot Universali di Rossum, 1921) del ceco Karel Čapek. Il termine robot, utilizzato per la prima volta proprio in questa opera, venne inizialmente reso in giapponese attraverso l’espressione “Jinzō Ningen” (uomo artificiale), ma in breve si affermò nell’uso linguistico come prestito riadattato in “robotto”. Nel frattempo, a pochi anni di distanza dalla comparsa dei robot di Čapek, il motivo delle macchine artificiali dotate di sembianze antropomorfe e di intelligenza venne ripreso dal lungometraggio di Fritz Lang Metropolis (1927), distribuito in Giappone nel 1929, e cominciò a ispirare i lavori di alcuni scienziati. Il primo robot giapponese, una sorta di enorme Buddha di metallo dorato di nome Gakutensoku, fu progettato e costruito nel 1928 dal biologo Makoto Nishimura. Nel 1932, un altro robot dall’aspetto più meccanico venne realizzato da Yasutaro Mitsui.
Negli stessi anni, diversi scrittori giapponesi rappresentarono il rapporto tra uomo e macchina nell’ambito di una nuova corrente di letteratura fantascientifica. Esempi precoci di racconti giapponesi incentrati sul tema dei robot – a testimoniare la varietà di suggestioni fantastiche, futuristiche ma anche satiriche cui si prestava l’argomento – sono L’uomo artificiale di Hirabayashi Hatsunosuke (Jinzō Ningen, 1928), storia di uno scienziato che vuole creare un bambino artificiale, nonostante i dubbi avanzati dalla sua giovane assistente circa le implicazioni etiche del progetto, L’era degli uomini artificiali di Niou Mizushima (Jinzō Ningen Jidai, 1929), accompagnato da illustrazioni dello stesso autore ricalcate sul modello di Metropolis, e Il robot e il peso del letto di Naoki Sanjugo (Robotto to Beddo no Juryo, 1931), in cui un marito geloso costruisce un robot per vigilare sulla fedeltà della moglie.
Unno Jūza, considerato il maggiore scrittore giapponese di fantascienza dell’epoca, sviluppò il tema dei robot in molte narrazioni di vario genere, spaziando da racconti per ragazzi a romanzi basati sull’impianto della detective story. Un esempio particolarmente interessante è costituito dal romanzo breve Il robot Mr. F (Jinzō Ningen Efu-shi, 1939), pubblicato a puntate su una rivista per bambini. Shōta e Mariko, i due bambini protagonisti, conoscono in Russia uno scienziato che chiede loro di insegnare il giapponese a Mr. F, un robot creato in modo da riprodurre alla perfezione le sembianze di Shōta. In seguito, il robot si infiltra in Giappone fingendosi Shōta, rapisce Mariko e compie azioni criminali sempre più distruttive, costituendo una vera e propria minaccia per la sicurezza pubblica. Il romanzo, come anche altre opere di Unno Jūza, dimostra quanto il robot fosse nell’immaginario collettivo dell’epoca un simbolo polivalente di progresso tecnologico e potenza militare spesso connotato da una natura conflittuale, minacciosa e drammatica. Figura straniante per eccellenza, il più delle volte creata da folli scienziati di stati rivali, all’alba della seconda guerra mondiale esso incarnava con ricorrenza sempre maggiore il doppio malvagio dell’uomo, o in altre parole il nemico del Giappone.
Robot e manga
A sinistra: un’illustrazione di Niou Mizushima (1929).
A destra: Yasutaro Mitsui in posa col suo robot di acciaio (1932).
A destra: Yasutaro Mitsui in posa col suo robot di acciaio (1932).
Negli stessi anni, diversi scrittori giapponesi rappresentarono il rapporto tra uomo e macchina nell’ambito di una nuova corrente di letteratura fantascientifica. Esempi precoci di racconti giapponesi incentrati sul tema dei robot – a testimoniare la varietà di suggestioni fantastiche, futuristiche ma anche satiriche cui si prestava l’argomento – sono L’uomo artificiale di Hirabayashi Hatsunosuke (Jinzō Ningen, 1928), storia di uno scienziato che vuole creare un bambino artificiale, nonostante i dubbi avanzati dalla sua giovane assistente circa le implicazioni etiche del progetto, L’era degli uomini artificiali di Niou Mizushima (Jinzō Ningen Jidai, 1929), accompagnato da illustrazioni dello stesso autore ricalcate sul modello di Metropolis, e Il robot e il peso del letto di Naoki Sanjugo (Robotto to Beddo no Juryo, 1931), in cui un marito geloso costruisce un robot per vigilare sulla fedeltà della moglie.
Unno Jūza, considerato il maggiore scrittore giapponese di fantascienza dell’epoca, sviluppò il tema dei robot in molte narrazioni di vario genere, spaziando da racconti per ragazzi a romanzi basati sull’impianto della detective story. Un esempio particolarmente interessante è costituito dal romanzo breve Il robot Mr. F (Jinzō Ningen Efu-shi, 1939), pubblicato a puntate su una rivista per bambini. Shōta e Mariko, i due bambini protagonisti, conoscono in Russia uno scienziato che chiede loro di insegnare il giapponese a Mr. F, un robot creato in modo da riprodurre alla perfezione le sembianze di Shōta. In seguito, il robot si infiltra in Giappone fingendosi Shōta, rapisce Mariko e compie azioni criminali sempre più distruttive, costituendo una vera e propria minaccia per la sicurezza pubblica. Il romanzo, come anche altre opere di Unno Jūza, dimostra quanto il robot fosse nell’immaginario collettivo dell’epoca un simbolo polivalente di progresso tecnologico e potenza militare spesso connotato da una natura conflittuale, minacciosa e drammatica. Figura straniante per eccellenza, il più delle volte creata da folli scienziati di stati rivali, all’alba della seconda guerra mondiale esso incarnava con ricorrenza sempre maggiore il doppio malvagio dell’uomo, o in altre parole il nemico del Giappone.
Robot e manga
Alcuni autori di manga, nel frattempo, avevano adoperato robot come personaggi delle proprie serie a fumetti. Suihō Tagawa, prima di divenire famoso con una serie incentrata sulle avventure di un cagnolino antropomorfo (Norakuro, 1931), pubblicò delle brevi scenette umoristiche aventi come protagonista un simpatico robot dalle fattezze umanoidi (Jinzō Ningen, 1929). Per quanto riguarda la fisionomia dei personaggi, è interessante notare come entrambe le serie di Tagawa paiono anticipare alcuni elementi di quello che sarà l’aspetto dell’Astro Boy di Osamu Tezuka (gli slip neri sorretti da una cintura, nel caso di Jinzō Ningen, e la stilizzazione delle orecchie di Norakuro che ispirò forse i capelli a punta di Atom).
Suihō Tagawa, Jinzō Ningen (1929)
Il primo robot a fumetti a guadagnare una grande popolarità fu Tanku Tankuro (1934) di Gajō Sakamoto, un curioso personaggio tondeggiante e trasformista a metà tra l’androide e il samurai, con un corpo di metallo sferico dotato di fessure attraverso le quali i suoi arti fuoriescono in forma di braccia, ali, eliche o armi, permettendogli di volare e combattere i nemici del Giappone. Le avventure belliche di Tanku Tankuro, al di là di uno stile grafico giocoso e accattivante, riflettono le tensioni militari che esploderanno di lì a pochi anni con lo scoppio della seconda guerra sino-giapponese, nonché un’ispirazione tematica che verrà ripresa da Osamu Tezuka (il robot come eroe giapponese in lotta contro il male).
Altre figure di robot che compaiono nei manga precedenti alla fine della seconda guerra mondiale e all’esordio artistico di Tezuka sono invece veri e propri colossi meccanici, come in Una strana fabbrica metallurgica (Yukai na tetsu kôjo, 1941) di Ōshiro Noboru. La storia tratta di un mangaka che in sogno incontra uno scienziato e suo figlio, viaggia con loro in mongolfiera e si trova a visitare una fabbrica, dove un gruppo di animali antropomorfi di disneyana memoria sono impegnati nella costruzione di un enorme robot. Lo stesso autore, qualche anno prima, aveva dato alle stampe L’androide birillo (Jinzō Ningen no pin bō, 1938), manga che ha come protagonista un modello di robottino chiaramente ricalcato sul precedente di Suihō Tagawa.
Gajō Sakamoto, Tanku Tankuro (1934) |
A sinistra: Ōshiro Noboru, Jinzō ningen no pin bō (1938).
A destra: Ōshiro Noboru, Yukai na tetsu kôjo (1941).
A destra: Ōshiro Noboru, Yukai na tetsu kôjo (1941).
Nell’immediato dopoguerra, la serie che anticipò più di ogni altra Astro Boy di Tezuka – come attestano alcune dichiarazioni dello stesso autore e della sorella Minako – fu sicuramente Putchā nel paese delle meraviglie (Fushigi no kuni no Putchā) di Fukujirō Yokoi, pubblicata dal settembre 1946 al marzo 1948 fino alla morte prematura dell’autore, all’epoca trentaseienne, e poi portata a termine nel 1949 da Tetsuo Ogawa. Lo stile della serie oscilla tra lo story manga e il tradizionale libro illustrato, con ampi spazi della pagina lasciati al testo e immagini accompagnate da balloons. La storia, ambientata in un futuro remoto nel quale l’umanità ha raggiunto uno stadio di civiltà avanzata grazie all’utilizzo dell’energia atomica, ha come protagonista un bambino di nome Putchā, figlio di uno scienziato esperto in robotica. Un giorno, il padre di Putchā costruisce un robot di nome Perī e lo consegna a una donna che ha perso il suo figlio in un incidente ferroviario. Il robot, dalle sembianze di un bambino ma dalla potenza di 100000 cavalli (proprio come Atom), diviene popolare tra la gente per i suoi gesti eroici, ma è anche vittima di una banda di criminali che lo rapisce. In seguito, Perī prosegue le sue avventure in giro per l’universo assieme a Putchā e al padre scienziato, visitando la Luna, Marte e altri pianeti.
L’opera di Fukujirō Yokoi, significativamente realizzata nell’immediato dopoguerra, è con ogni probabilità la prima serie a fumetti giapponese a proporre una visione ampia e credibile di una società futura. Le analogie con Astro Boy di Tezuka, del resto, includono anche diversi motivi tematici (in particolare l’enfasi sul conflitto tra bene e male e sulle potenzialità dell’energia atomica) e elementi di caratterizzazione dei personaggi (il robot dalle sembianze di un bambino, dotato di una sorprendente potenza e progettato come il sostituto di un bambino morto in un incidente).
Fukujirō Yokoi, Fushigi no kuni no Putchā (1946)
Un esempio classico dell’altro genere di robot in voga in quegli anni – un essere meccanico colossale, dall’aspetto solo vagamente antropomorfo – è fornito da Uno strano robot (Kairobotto, 1947) di Sakai Shichima. In questa storia uno scienziato malvagio progetta un potentissimo robot per rapire un dottore e impossessarsi della sua valigetta di medicinali. L’arrivo della polizia, alla fine, permette di sventare il piano criminale, mentre il robot viene riprogrammato in modo da non nuocere alla società. Nello stesso anno Sakai Shichima scrisse i testi per La nuova isola del tesoro (Shintakarajima, 1947), manga disegnato da Osamu Tezuka che riscosse un enorme successo di pubblico e segnò per il giovanissimo autore – all’epoca diciannovenne – il primo passo decisivo di una lunga e prolifica carriera.
Sakai Shichima, Kairobotto (1947)
Nel giro di pochi anni proprio Osamu Tezuka si distinse come il principale rinnovatore dell’immaginario a fumetti giapponese e il vero padre fondatore del manga moderno. La sua opera più celebre, nota ancora oggi in tutto il mondo come Astro Boy (dal titolo con cui venne distribuita in U.S.A. la serie animata del 1963), si sviluppò a partire da L’ambasciatore Atom (Atomu Taishi, 1951), manga serializzato in tre puntate in cui compare come figura secondaria un robot dall’aspetto di un ragazzo inviato dalla Terra come ambasciatore di pace per porre fine a una guerra interplanetaria, e fu pubblicata col titolo Atom dal braccio di ferro (Testuwan Atomu) dal 1952 al 1968.
La serie si presenta per molti aspetti come un eccezionale compendio delle più varie ispirazioni che negli anni precedenti avevano alimentato l’immaginario fantascientifico nella letteratura giapponese e nei manga, dalla rappresentazione di una civiltà futura e tecnologicamente avanzata fondata sull’impiego dell’energia atomica al rilievo centrale accordato alla figura del robot. La storia di Atom, robot bambino costruito dal Dr. Tenma come sostituto del figlio morto in un incidente, riecheggia inoltre suggestioni letterarie che vanno dal Frankenstein di Mary Shelley al Pinocchio di Collodi (disponibile in una traduzione giapponese dal 1920).
La serie si presenta per molti aspetti come un eccezionale compendio delle più varie ispirazioni che negli anni precedenti avevano alimentato l’immaginario fantascientifico nella letteratura giapponese e nei manga, dalla rappresentazione di una civiltà futura e tecnologicamente avanzata fondata sull’impiego dell’energia atomica al rilievo centrale accordato alla figura del robot. La storia di Atom, robot bambino costruito dal Dr. Tenma come sostituto del figlio morto in un incidente, riecheggia inoltre suggestioni letterarie che vanno dal Frankenstein di Mary Shelley al Pinocchio di Collodi (disponibile in una traduzione giapponese dal 1920).
Osamu Tezuka. Kasei hakase (1947), Ōzora maō (1948) e Metropolis (1949).
Il tema del robot, del resto, era già stato utilizzato da Tezuka in alcune opere precedenti e meno note, come in Dr. Mars (Kasei hakase, 1947) – dove compaiono sia robot dall’aspetto umano, sia robot meccanici –, in King Rocket (Ōzora maō, 1948) – dove un robot bambino è in grado di volare grazie a un’elica che gli esce dalla testa, esattamente come in Tanku Tankuro di Gajō Sakamoto – e in Metropolis (1949), liberamente ispirato al film di Fritz Lang – dove viene mostrata la creazione del bambino robot in una scena che ricorda il risveglio di Frankenstein nel film di James Whale (1931). È possibile considerare queste storie – così come i racconti e i manga fantascientifici che le hanno precedute negli anni ‘20 e ‘30 – come le tappe preliminari di un percorso che sarebbe culminato nella vasta saga di Atom. Erede di una tradizione composita, Tetsuwan Atomu segnò comunque l’inizio di una nuova fase per il fumetto giapponese e per il suo immaginario, la cui risonanza ha in breve tempo travalicato il mondo dei manga e degli anime per proiettarsi nei campi della produzione industriale di giocattoli e gadget, della robotica e degli studi sulla creazione di intelligenze artificiali.
Bibliografia
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Robert Jacobs (a cura di), Filling the Hole in the Nuclear Future. Art and Popular Culture Respond to the Bomb, Plymouth, Lexington Books, 2010.
Brigitte Koyama-Richard, One thousand years of manga, Paris, Flammarion, 2007.
Helen McCarthy, The art of Osamu Tezuka. God of manga, New York, Abrams ComicArts, 2009.
Miri Nakamura, Monstrous bodies. The rise of the uncanny in modern Japan, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Asia Center, 2015.
Marco Pellitteri, Il drago e la saetta. Modelli, strategie e identità dell’immaginario giapponese, Latina, Tunué, 2008.
Monica Piovan, Osamu Tezuka. L’arte del fumetto giapponese, Mestre, Musa, 1996.
Frederik L. Schodt, The Astro Boy Essays, Berkeley (California), Stone Bridge Press, 2007.
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