L’opera di Franz Kafka è tra le più ricche di riferimenti al mondo animale e tra le più suggestive per la sensibile attenzione riservata ai legami che intercorrono tra di esso e il mondo umano. Irriducibile a una rigida tassonomia, il bestiario kafkiano si compone soprattutto di figure intermedie tra questi due regni, bestie generate da processi di ibridazione e metamorfosi ed esemplari di una zoologia le cui radici sono il più delle volte fantastiche e indecifrabili: l’enorme insetto simile a uno scarafaggio in cui Gregor Samsa si trasforma ne La metamorfosi; l’animale innominato – forse una talpa – del racconto La tana; l’assurdo ammasso di pezzetti di filo e bastoncini chiamato Odradek ne Il cruccio del padre di famiglia; il curioso animale “mezzo gattino e mezzo agnello” in Un incrocio; il cavallo Bucefalo, avvocato di professione in Il nuovo avvocato (per citare solo alcuni dei racconti più celebri).
In questo bestiario vasto e composito è possibile isolare una famiglia di animali striscianti, notturni e silenziosi, per i quali l’interesse dell’autore sembra inscindibile da una profonda inquietudine e alimenta una continua interrogazione circa la loro diversità dall’essere umano. Figura principe di tale famiglia è quella del topo, o meglio – dal momento che in Kafka è spesso animale collettivo, e quasi mai solitario – del popolo dei topi, le cui apparizioni si rincorrono in un buon numero di racconti, frammenti e lettere dell’autore, a cominciare da quelle, indirizzate agli amici durante il soggiorno a Zürau (1917/18), in cui lamentava a più riprese la presenza di ospiti indesiderati nella sua camera da letto.
In questo bestiario vasto e composito è possibile isolare una famiglia di animali striscianti, notturni e silenziosi, per i quali l’interesse dell’autore sembra inscindibile da una profonda inquietudine e alimenta una continua interrogazione circa la loro diversità dall’essere umano. Figura principe di tale famiglia è quella del topo, o meglio – dal momento che in Kafka è spesso animale collettivo, e quasi mai solitario – del popolo dei topi, le cui apparizioni si rincorrono in un buon numero di racconti, frammenti e lettere dell’autore, a cominciare da quelle, indirizzate agli amici durante il soggiorno a Zürau (1917/18), in cui lamentava a più riprese la presenza di ospiti indesiderati nella sua camera da letto.
La prima grande magagna di Zürau: una notte di topi, storia terribile. Fisicamente sono intatto e i capelli non sono oggi più bianchi di ieri, ma è stato il terrore del mondo. Già da prima avevo avvertito a tratti […] un rosicchiare leggero, e, una volta, tremando mi ero alzato per scoprire che cosa fosse, ma subito si era fatto silenzio.
Questa volta però è stata una sedizione. Che popolo questo, muto, rumoroso e terribile! Mi sono svegliato per un fruscio accanto al letto che non è più cessato fino al mattino. Montavano sulla cassa del carbone, scendevano dalla cassa del carbone, traversavano la stanza in diagonale, tracciavano cerchi, rosicchiavano legno, fischiavano leggeri, e io dormivo e insieme avevo il senso del loro silenzio, del lavoro clandestino di un popolo di proletari oppressi, a cui appartiene la notte. […] Ero del tutto disarmato, senza un sostegno in tutto il mio essere, non osavo accendere una luce; solo emettere di tanto in tanto un grido per tentare di impaurirli. Così è trascorsa la notte. Per il fastidio e la tristezza, la mattina non riuscivo ad alzarmi e sono rimasto a letto fino all’una, tendendo l’orecchio al lavoro instancabile di uno di loro dentro l’armadio a chiudere la notte o a preparare la prossima.
Lettera a Felix Weltch, metà novembre 1917
Topi spaventosi si sono fatti vedere, ed è impossibile che tu non l’abbia saputo; li ho un poco cacciati col gatto che ogni sera porto, “al caldo nelle mie braccia”, attraverso la piazza, ma ecco che ieri un barbaro topo da forno, che probabilmente non aveva mai messo piede in una camera da letto, ha fatto irruzione qui con un fracasso inaudito; ho dovuto chiamare il gatto dalla stanza attigua dove l’ho insediato a causa della mia incapacità di educarlo alla pulizia e del mio timore che salti sul letto […]. Poi è ritornato il silenzio.
Lettera a Oskar Baum, primi di dicembre 1917
Da destra: Franz Kafka, la sua segretaria Julie Kaiser, la sorella Ottla, la cugina Irma e la domestica Mařenka presso Zürau, nel 1917. |
In una lettera scritta il 4 dicembre 1917 a Max Brod – conservata ora al Deutsches Literaturarchiv di Marbach am Neckar, dopo il recente ritrovamento dell’originale – Kafka analizza la paura dei topi ricollegandola a quella degli insetti e individuandone le caratteristiche fondamentali: le apparizioni dei topi, spiega, sono paurose in quanto inattese, ambigue e minacciose, ma soprattutto perché si tratta di animali piccoli e quindi “lontani da noi e inattaccabili”.
Quello che provo nei riguardi dei topi è pura e semplice paura. La causa di essa potrebbe cercarla uno psicanalista; e io non lo sono. Come per la paura degli insetti, una delle ragioni di essa sta nel loro apparire improvvisi; è un’apparizione non annunciata, inevitabile, a suo modo silenziosa, rabbiosa, d’intenzione non chiara; è legata alla sensazione che quegli animali abbiano fatto cento buchi in ogni muro che ci circonda, e che vi si trovino in agguato; al fatto che sono i padroni della notte e tanto piccoli, e per questo così lontani da noi e inattaccabili.
È un elemento importante di questa paura soprattutto il fatto che sono piccoli. L’idea che ci sia un animale che somigli assolutamente a un porco, il quale per sé è un animale divertente, ma che, piccolo come un topo, esca da un buco del pavimento, l’idea stessa di questo è spaventosa.
Lettera a Max Brod, 4 dicembre 1917
Kafka tentò di liberarsi dei topi ricorrendo a due strategie: predisponendo alcune trappole e ingaggiando un gatto per sorvegliare la stanza. Se le trappole si rivelarono generalmente inutili, al punto che un topo “svergognato come un bambino piccolo” poté giocherellare con una di esse estraendone a piccoli strappi il lardo, ed oltretutto moleste (“la porta della gabbia s’alza e s’abbassa facendo un gran rumore […]. La trappola […] non sa di essere più una sveglia che una trappola”) [lettera a Oskar Baum, metà gennaio 1918], ben più efficace si dimostrò l’intervento del gatto. “I gatti cacciano i topi semplicemente con la loro presenza,” spiega Kafka nella lettera a Max Brod del 4 dicembre 1917, e aggiunge poco dopo: “era come la presenza del maestro in classe, si poteva solo qua e là chiacchierare nei buchi”.
Gli avvenimenti quotidiani sono in queste lettere riportati da Kafka con la consueta precisione descrittiva tipica dello scrittore, che non esclude del resto possibilità di rielaborazione in chiave visionaria (specie sul motivo dell’incubo e dell’angoscia) e improvvisi capovolgimenti di tono verso un registro comico-grottesco. Lo stesso autore, in una lettera scritta a Oskar Baum a metà dicembre 1917, definisce “uno scherzo” le sue drammatiche dichiarazioni sulla paura dei topi, se considerate nell’ottica di una persona che non si trova coinvolta nell’hic et nunc della spiacevole esperienza: “Ciò che ho scritto dei topi era naturalmente uno scherzo. Diventa un fatto serio solo quando tu senti veramente i topi. Non credo che ci sia un sonno di scrittore o di compositore capace di resistere ad essi, e neppure un cuore tale che non diventi pieno di disgusto e di tristezza se non esattamente di paura”.
Franz Kafka e Felice Bauer (1917). |
Un racconto incompiuto scritto da Kafka nel 1914 – tre anni prima del suo soggiorno a Zürau – permette di approfondire ulteriormente la questione, e di constatare quanto l’immagine del popolo dei topi non nasca per l’autore come una semplice rielaborazione personale di esperienze biografiche occasionali, ma nasconda una valenza psicologica più profonda e radicata nella sua poetica di scrittore. Il racconto si intitola Ricordi dalla ferrovia di Kalda e fu scritto da Kafka nel periodo che seguì la prima rottura del fidanzamento con Felice Bauer – circostanza che con tutta probabilità spinse lo scrittore a riversare nelle sue pagine un diffuso senso di solitudine e abbandono. Le coincidenze tematiche con le lettere del periodo di Zürau sono sorprendenti: come l’autore nell’inverno del 1917, anche il protagonista del racconto, ritiratosi in una piccola stazione sperduta nella steppa della Russia, si trova a un certo punto costretto ad affrontare una colonia di topi che infesta il suo rifugio. L’anonimo narratore, attirato in quel luogo inospitale anche dalla prospettiva della caccia, scopre che l’unica selvaggina a sua disposizione è in realtà costituita dai roditori, che può combattere col solo ausilio di un coltello. Il rapporto che intercorre tra l’uomo e i topi non si risolve però in quello del predatore con la preda: l’uomo trascorre lungo tempo a osservare da vicino gli esemplari che riesce a catturare studiandone l’aspetto, i movimenti e interrogandosi sul senso della loro febbrile e laboriosa attività, cercando così di superare la distanza che li separa e in questo modo muovendosi sulla strada di una pur parziale immedesimazione.
In principio, quando mi buttavo su ogni cosa con curiosità, mi capitò di infilzarne uno e di tenerlo contro il muro all’altezza degli occhi. Gli animali di piccola taglia non si vedono bene se non a condizione di averli davanti a sé all’altezza degli occhi. […] Di più colpivano in questo topo le unghie: grandi, leggermente concave e molto aguzze in punta, molto adatte a scavare. Sospeso al muro, di fronte a me, il topo, nell’ultima agonia, irrigidì gli artigli e li riaprì in un movimento innaturale in un essere vivo. Le unghie somigliavano a una piccola mano tesa verso di me.
In generale questi animali non m’infastidivano molto. Solo poche volte mi svegliavano di notte, quando passavano in fretta vicino alla capanna in un picchiettio di zampe sulla terra dura. Se mi mettevo su seduto e accendevo una candelina, potevo vedere le unghie di un topo, aggrappato all’esterno, che sporgevano dentro, intente febbrilmente a scavare un buco in qualche fessura in basso nello stipite della porta. […] Di notte stavo spesso a guardare queste cose fino a quando la calma e la regolarità del lavoro del topo non m’inducevano al sonno. Allora non avevo più neanche l’energia sufficiente per spegnere la candela e questa continuava per un po’ a far luce sul topo e sul suo lavoro.
Ricordi dalla ferrovia di Kalda (1914)
Il racconto di un incontro notturno ravvicinato tra l’uomo ed un topo, intento a scavare con le unghie il legno per entrare nella capanna, si concentra dapprima sullo sforzo ostinato della bestia, quindi termina improvvisamente con la sua uccisione da parte dell’uomo, ridiventato cacciatore per difendere il possesso del suo territorio. Suggellato in questo modo l’isolamento dal mondo esterno, nel prosieguo del racconto l’uomo vedrà la sua condizione tradursi dapprima in malattia transitoria, annunciata da forti attacchi di tosse e da ululati animaleschi (in cui si sostanzia il suo divenire-animale), quindi in febbre irreversibile.
Una volta, era una notte calda, sentendo le unghie in attività, con prudenza uscii fuori a lume spento per vedere la bestia. La testa stava tutta china col muso appuntito immerso quasi tra le zampe anteriori nello sforzo di accostarsi, quanto più era possibile, al legno, per affondarvi al massimo le unghie. Tutto il corpo era così teso che si sarebbe pensato che qualcuno lo tirasse dentro per le unghie costringendolo a forza nell’apertura. E invece tutto finì con un calcio che uccise la bestia. Dovevo pur difendermi, quand’ero sveglio, dagli attacchi alla baracca, mio unico possesso. Per difenderla contro i topi turai tutti i buchi con paglia e stoppa e ogni mattina ispezionai tutt’intorno.
Ricordi dalla ferrovia di Kalda (1914)
Altri brevi scritti tratti da quaderni e diari riflettono uno sguardo diverso sulla figura del topo, che in coincidenza con la significativa scomparsa dell’essere umano dalla scena diviene assoluto protagonista di un mondo osservato dal basso. Il topo finito in trappola che sacrifica la sua vita al cospetto del genitori – in un raccontino redatto sul sesto degli otto Quaderni in ottavo – può essere così oggetto di un quadretto patetico il cui epilogo sembra riprodurre in chiave parodica lo svolgimento de La metamorfosi.
Quando il topino, amato come nessun altro nel mondo dei topi, finì una notte in trappola e stridendo disperatamente sacrificò la vita per uno sguardo a un pezzetto di lardo, tutti i topi dei dintorni, nei loro buchi, involontariamente si guardarono e rabbrividirono cominciando a tremare; senza volerlo strizzavano gli occhi e si guardavano l’un l’altro, uno dopo l’altro, mentre le code, prese da uno zelo insensato, spazzavano il suolo. Poi, esitanti, dandosi spinte, uscirono affascinati verso il luogo di morte.
Era disteso là, il piccolo amabile topino col ferro nella nuca, le zampetta rosa schiacciate, il misero cornicione irrigidito al quale un po’ di lardo si sarebbe pur potuto concedere. In piedi, lì accanto, i genitori adocchiavano i resti del figlio.
da Quaderni in ottavo (1917 ca)
La figura del topo viene inoltre utilizzata da Kafka in due brevi favole accomunate dall’epilogo amaro, dove alla lezione di La Fontaine si somma l’influenza di una comicità legata alla tradizione del racconto umoristico chassidico. Nella prima favola un topo, padre di famiglia, viene catturato da un gatto. Il finale della storia è già scritto, e per questo motivo la conversazione paradossale che segue non può che provocare l’ilarità del lettore. Nella seconda favola, il lamento di un topo per cui il mondo è diventato simile a una trappola – sorte analoga a quella di molti personaggi kafkiani, primo tra tutti il Josef K. de Il processo – viene soffocato all’improvviso dall’intervento del gatto che lo mangia.
Un gatto aveva preso un topo. “Che stai facendo?”, disse il topo, “hai occhi terribili”. “Oh!” disse il gatto, “i miei occhi sono sempre così, ti ci abituerai”. “Preferirei andarmene,” disse il topo, “i miei figli mi aspettano”. “I tuoi figli ti aspettano?” disse il gatto, “in tal caso, vattene, il più presto che puoi. Vorrei solo farti qualche domanda”. “Fallo, te ne prego. È veramente molto tardi”.
“Ohimè”, disse il topo, “il mondo si fa ogni giorno più stretto. Prima era così vasto che ne ebbi paura. Presi a correre, a correre, e mi rallegrai nel vedere finalmente, a destra e a sinistra, levarsi in lontananza dei muri. “Ma sono lunghi muri che si avvicinano velocemente l’uno all’altro, così velocemente che mi trovo già nell’ultimo spazio e vedo laggiù nell’angolo la trappola in cui di corsa mi sto precipitando”. “Tu non devi far altro che cambiare direzione”, gli disse il gatto e se lo mangiò.
Una piccola favola (1920)
Figure di topi, infine, ritornano significativamente con un ruolo di assoluto rilievo nell’ultimo racconto scritto da Kafka: Josefine la cantante, o Il popolo dei topi (1924). In questo scritto denso ed enigmatico, articolato in una serie di riflessioni e argomentazioni via via più complesse, la voce narrante – affidata ad un membro del popolo dei topi – narra la storia di Josefine, cantante che per le sue doti artistiche costituisce una singolare e problematica eccezione all’interno della specie cui appartiene. In tutto il racconto, curiosamente, non compare una sola volta la parola topo, che pure l’autore decise di inserire nel titolo in un momento successivo alla pubblicazione in rivista, motivando la sua scelta su un bigliettino che scrisse in sanatorio: “Al racconto bisognerà dare un titolo nuovo: Josefine la cantante, o Il popolo dei topi. Un titolo con ‘ovvero’ non è molto bello, ma qui avrebbe forse un significato particolare. Ricorda un po’ la bilancia”. Qualche mese prima, riferendosi allo stesso racconto, Kafka aveva utilizzato le seguenti parole, riportate da Robert Klopstock: “Credo di aver iniziato al momento giusto a studiare lo squittio degli animali”.
La scelta di non definire o nominare direttamente l’animale rappresentato, se non per mezzo di minime descrizioni di gesti o abitudini, è comune a diversi racconti di Kafka, e anche in questo caso contribuisce a rafforzare l’ambiguità del testo e a potenziarne il carattere allusivo e metaforico. Lo stesso nome scelto per il personaggio protagonista, Josefine, richiama il Josef K. del Processo, e assieme ad altri indizi testuali induce a leggere il racconto non solo in chiave autobiografica, ma anche come una riflessione sul ruolo dell’artista e la funzione dell’arte all’interno della società, se non addirittura come una parabola. L’associazione tra Kafka e un topo (nome che in tedesco ha genere femminile) conta poi un illustre precedente nell’eccentrico e satirico Bestiario della letteratura (1922) di Franz Blei, dove una creatura denominata “Die Kafka” è descritta in questi termini: “topo dal colore blu lunare, splendido ma difficile da vedere, che non mangia carne, nutrendosi solo di erbe amare. Il suo sguardo affascina, perché ha occhi umani”.
La raffigurazione della collettività dei topi, infine, adombrerebbe secondo alcuni esegeti la situazione del popolo ebraico e del movimento sionista: recuperando in funzione critica l’immagine dell’animale tradizionalmente associato alle epidemie (e utilizzato anche dalla propaganda antisemita), Kafka avrebbe in un certo senso anticipato l’analoga operazione compiuta alcuni decenni più tardi da Art Spiegelman in Maus (1991), romanzo a fumetti che rievoca l’orrore della Shoah ritraendo gli ebrei come topi. Giustificate o meno tali letture, appare comunque emblematico l’approdo di questo percorso sulla figura del topo nell’opera di Kafka, se dall’immagine di un animale considerato inquietante e quanto mai lontano dall’uomo l’autore ha potuto trarre una rappresentazione che non solo richiama genericamente l’essere umano come popolo, ma che riflette anche in modo specifico il suo animo di artista.
Estratto da Das grosse Bestiarium der modernen Literatur (1922) di Franz Blei. |
La raffigurazione della collettività dei topi, infine, adombrerebbe secondo alcuni esegeti la situazione del popolo ebraico e del movimento sionista: recuperando in funzione critica l’immagine dell’animale tradizionalmente associato alle epidemie (e utilizzato anche dalla propaganda antisemita), Kafka avrebbe in un certo senso anticipato l’analoga operazione compiuta alcuni decenni più tardi da Art Spiegelman in Maus (1991), romanzo a fumetti che rievoca l’orrore della Shoah ritraendo gli ebrei come topi. Giustificate o meno tali letture, appare comunque emblematico l’approdo di questo percorso sulla figura del topo nell’opera di Kafka, se dall’immagine di un animale considerato inquietante e quanto mai lontano dall’uomo l’autore ha potuto trarre una rappresentazione che non solo richiama genericamente l’essere umano come popolo, ma che riflette anche in modo specifico il suo animo di artista.
Art Spiegelman, Maus (1991) |
Bibliografia
F. Kafka, Racconti, a cura di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1970.
F. Kafka, Lettere, a cura di F. Masini, Milano, Mondadori, 1988.
F. Kafka, Storie di animali, a cura di G. Giudice, Palermo, Sellerio, 2005.
F. Kafka, Un artista del digiuno. Quattro storie, Macerata, Quodlibet, 2009.
W. Benjamin, Franz Kafka. Zum zehnten Wiederkehr seines Todestages [trad. it.: Id., Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Id., Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 2006 (1962)].
F. Blei, Das grosse Bestiarium der modernen Literatur, Berlino, 1922 [trad. it.: Id., Il bestiario della letteratura, Milano, Il saggiatore, 1980].
G. Deleuze - F. Guattari, Kafka. Pour une littérature mineure, Paris, Minuit, 1975 [trad. it.: Id., Kafka. Per una letteratura minore, Macerata, Quodlibet, 1996].
M. Latini, Topo, in L. Caffo - F. Cimatti (a cura di), A come animale. Voci per un bestiario dei sentimenti, Milano, Bompiani, 2015.
[L’immagine di copertina è un particolare di un’opera di Paula Rego, Three blind mice (1989). Le traduzioni degli scritti di Kafka sono di Valeria Giudice. L’articolo si è sviluppato anche grazie ad alcuni chiarimenti di Gaia Gambini, che ringrazio.]