[Articolo pubblicato originariamente su Fumettologica il 20 gennaio 2016.]
Walt Disney ha prodotto due trasposizioni animate della fiaba Il brutto anatroccolo (1843) di Hans Christian Andersen, entrambe appartenenti al ciclo delle Silly Symphonies: The Ugly Duckling (1931, in italiano Il brutto anatroccolo) e Ugly Duckling (1939, in italiano Il piccolo diseredato). La circostanza è di per sé significativa, perché si tratta dell’unica fiaba riproposta da Disney in due occasioni distinte, e può servire da spunto per indagare l’influenza di una storia per molti aspetti esemplare all’interno della sua poetica, a giudicare dal numero di cartoni animati interpretabili come variazioni sul tema originario di Andersen.
The Ugly Duckling (1931) venne prodotto in un periodo di transizione, durante il quale cominciarono a essere realizzate Silly Symphonies di impianto maggiormente narrativo tratte da fiabe e da racconti classici della letteratura per l’infanzia. In questo caso la fiaba di Andersen offrì solo lo spunto iniziale per una trasposizione molto libera, soprattutto per quanto riguarda l’epilogo (il brutto anatroccolo, emarginato dalla madre e dai fratelli, non si unisce a un gruppo di cigni, ma grazie al superamento di una prova di coraggio viene reintegrato nella famiglia). Ugly Duckling (1939), ultima Silly Symphony distribuita e tra le più riuscite della serie, conserva una più stretta aderenza alla storia originale, ma non rinuncia a discostarsi dal modello in alcuni aspetti (primo tra tutti la figura materna, rappresentata come ostile e anaffettiva nei confronti del brutto anatroccolo) né a introdurre nella trama piccole innovazioni particolarmente ispirate (ad esempio, la scena dell’anatra giocattolo).
The Ugly Duckling (1931) venne prodotto in un periodo di transizione, durante il quale cominciarono a essere realizzate Silly Symphonies di impianto maggiormente narrativo tratte da fiabe e da racconti classici della letteratura per l’infanzia. In questo caso la fiaba di Andersen offrì solo lo spunto iniziale per una trasposizione molto libera, soprattutto per quanto riguarda l’epilogo (il brutto anatroccolo, emarginato dalla madre e dai fratelli, non si unisce a un gruppo di cigni, ma grazie al superamento di una prova di coraggio viene reintegrato nella famiglia). Ugly Duckling (1939), ultima Silly Symphony distribuita e tra le più riuscite della serie, conserva una più stretta aderenza alla storia originale, ma non rinuncia a discostarsi dal modello in alcuni aspetti (primo tra tutti la figura materna, rappresentata come ostile e anaffettiva nei confronti del brutto anatroccolo) né a introdurre nella trama piccole innovazioni particolarmente ispirate (ad esempio, la scena dell’anatra giocattolo).
Due fotogrammi tratti da The Ugly Duckling (1931) e Ugly Duckling (1939).
La capacità di reinvenzione disneyana si riflette del resto in un ampio spettro di figure analoghe a quella del brutto anatroccolo, la cui comparsa nei corti delle Silly Symphonies è il segno di un processo creativo in divenire. Esempi di “brutti anatroccoli” si ritrovano anzitutto in alcune scenette occasionali, dove l’effetto comico è ottenuto isolando un personaggio dai suoi simili e caratterizzandolo di conseguenza: è il caso del cigno nero che nuota dietro ai compagni in Birds of a Feather (1931), o della pecorella goffa e più piccola delle altre che in Mother Goose Melodies (1931), impegnata a tenere il passo del gregge, cade in una pozza diventando nera.
Nel giro di pochi mesi l’attenzione per queste figure travalicò poi l’ambito della gag occasionale e si approfondì in alcuni corti di impostazione maggiormente narrativa, incentrati su cuccioli che per qualche motivo si discostano dal gruppo famigliare esponendosi ai pericoli del mondo: un piccolo castoro, in The Busy Beavers (1931), rimane solo in balia del temporale, e a seguito di varie peripezie riesce infine ad arginare la piena del fiume, in un epilogo di stampo eroico che anticipa quello di The Ugly Duckling (distribuito appena sei mesi dopo); un piccolo pettirosso, in Birds in the Spring (1933), si allontana più volte dal nido per distrazione e ingenuità, incurante dei rischi a cui va incontro, finché uno sciame di api non lo costringe a tornare dalla sua famiglia.
Due fotogrammi tratti da Birds of a Feather (1931) e Birds in the Spring (1933).
La stessa dinamica, sviluppata all’interno di una cornice narrativa più complessa e dai più accentuati risvolti psicologici, venne riproposta un anno più tardi in The Flying Mouse (1934), curiosa rivisitazione del mito di Icaro ispirata a una favola di La Fontaine (La gazza vestita colle penne del pavone, 1668, a sua volta ripresa da una tradizione che risale a Esopo). Un topolino, invece di giocare assieme ai fratelli, passa il tempo a fantasticare di poter volare come un uccello. Deriso e umiliato dai famigliari dopo aver provato a volare servendosi di due grosse foglie come fossero ali, il topolino incontra una fata a cui chiede di esaudire il suo desiderio. La fata, dopo aver cercato di dissuaderlo ricordandogli che un topo non può volare, gli fa spuntare sulla schiena un paio di grosse ali, con cui il topolino vola via finendo nella tana di un pipistrello. Alla fine della storia, scacciato da tutti gli uccelli per via del suo aspetto ibrido, il topolino incontra di nuovo la fata e le chiede di fargli scomparire le ali. La fata, vedendo che ha imparato la lezione, esaudisce il suo desiderio, e il topolino fa ritorno a casa festeggiato dalla madre e dai fratelli.
Il cartone, sebbene proponga una morale molto diversa rispetto alla fiaba del brutto anatroccolo (secondo la quale è bene accontentarsi di ciò che si ha e non desiderare l’impossibile), è sintomatico dell’interesse crescente di Walt Disney per la figura del piccolo emarginato dal gruppo e in cerca di una propria identità. La tendenza è da mettere in relazione con una generale simpatia accordata in molti cortometraggi a personaggi strambi, sinistri e anticonvenzionali, come gli scheletri di The Skeleton Dance (1929) o il ragnetto che ricorre di frequente nelle prime Silly Symphonies, e prima ancora al motivo del “nano” che sconfigge il “gigante” cattivo (Mickey Mouse contro Pete), ma in modo più specifico si sviluppa nel solco di una nuova poetica. I cartoni animati, sempre più spesso modellati su una trama d’autore e non più soltanto sulla successione di singole gag umoristiche, cominciarono in quegli anni a proporre storie dotate di un messaggio morale, a delineare in modo approfondito la psicologia dei personaggi e a esplorare da vicino uno spettro di emozioni infantili che includeva la paura, la solitudine e il senso di abbandono. Il tema della diversità, in particolare, ispirò la creazione di una galleria di personaggi eccentrici, graziosi e patetici, capaci di suscitare l’empatia dello spettatore e una sua identificazione nei confronti della loro sorte, e si dispiegò in un vasto repertorio di scene cruciali orientate a rappresentare in modo efficace i loro conflitti emotivi.
The Flying Mouse (1934)
Il bambino è in questo caso sia il destinatario ideale della storia che il suo reale protagonista, pur celato dietro a una maschera zoomorfa. Ogni bambino, come il topolino di The Flying Mouse, ha sognato almeno una volta nella vita di poter volare, si è sentito emarginato dai suoi compagni, insicuro dell’amore dei propri genitori o irrimediabilmente diverso rispetto ai suoi simili. Tutti i bambini hanno provato sentimenti di insofferenza e ribellione nei confronti dell’ambiente famigliare, come il gattino monello di The Robber Kitten (1935) che fugge di casa per sottrarsi all’obbligo di lavarsi, e talvolta si sono sentiti deboli come la tartaruga impegnata in una gara di corsa con una lepre in The Tortoise and the Hare (1935), o ancora abbandonati a sé stessi come i piccoli orfani di Three Orphan Kittens (1935). Il percorso formativo di queste figure si snoda attraverso l’esperienza della solitudine e il confronto con situazioni di pericolo estremo, o in altre parole con le proprie paure. «Tutti i film di Mickey Mouse,» scrisse Walter Benjamin, «hanno come leitmotiv l’andarsene di casa per apprendere la paura» – formula che riprende il titolo di una fiaba dei fratelli Grimm e si potrebbe applicare in modo più esteso a gran parte dell’opera di Disney. L’epilogo di queste storie, sempre all’insegna dell’happy ending, è il luogo dove il conflitto trova una risoluzione: il piccolo protagonista, tipicamente, arriva a godere dell’affetto della sua famiglia e si riscopre parte di una comunità di fratelli.
Il tema della diversità conosce comunque svolgimenti più o meno drammatici, che vanno da una situazione di conflitto soltanto apparente o relativa alla soggettività del piccolo protagonista, come nel caso del topolino di The Flying Mouse o del gattino di The Robber Kitten, a forme di diversità ben più radicali come quella espressa nella fiaba del brutto anatroccolo. Nel primo caso il piccolo outcast è soprattutto un monello, o ha comunque bisogno di imparare una lezione di vita; nel secondo caso la sua condizione è più simile a quella di un capro espiatorio totalmente incolpevole. La poetica di Disney, in effetti, sembra oscillare tra i due poli per orientarsi progressivamente verso quest’ultimo, in concomitanza con una rappresentazione della diversità non solo relegata al dato psicologico soggettivo, ma in modo più crudele e traumatico inscritta nel corpo del piccolo protagonista.
In The Flying Mouse, le ali da pipistrello che la fata fa spuntare sulla schiena del topolino diventano il contrassegno di un’umiliante singolarità, così come in Pinocchio (1940) il naso lungo e gli attributi asinini (a partire dalle orecchie, utilizzate in questo senso anche come dispositivo pedagogico nelle scuole fino ai primi decenni del XX secolo). In altri casi la diversità non obbedisce a un’analoga funzione punitiva, né tantomeno è transitoria. Elmer Elephant, una Silly Symphony del 1936, mette in scena un elefantino discriminato dai compagni per via del suo aspetto buffo. Cacciato dalla festa di compleanno di una tigrotta di nome Tillie, riesce infine a conquistare la simpatia dei compagni (e a ottenere un bacio da Tillie) dopo aver spento un incendio proprio grazie alla sua proboscide. Cinque anni più tardi, l’elefantino protagonista di Dumbo (1941) patisce sofferenze ancora maggiori per via delle sue enormi orecchie a sventola: divenuto un fenomeno da baraccone in un circo (proprio come Pinocchio), si riscatta da tutte le ingiustizie subite quando scopre di essere in grado di volare. In queste storie, così come avviene nella fiaba del brutto anatroccolo, il lieto fine coincide in termini psicologici con l’acquisizione da parte del piccolo protagonista di un’immagine positiva di sé, tale da trasformare ciò che inizialmente era un elemento insensato di diversità in qualcosa di significativo, utile o addirittura speciale.
Walter Benjamin, Mickey Mouse, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2014.
Mariuccia Ciotta, Walt Disney. Prima stella a sinistra, Milano, Bompiani, 2005.
Stephen Jay Gould, Mickey Mouse meets Konrad Lorenz, «Natural History», 88, 5, 1979; poi ristampato col titolo A Biological Homage to Mickey Mouse, in Id., The panda’s thumb, New York, W. W. Norton, 1980 [trad. it.: Omaggio di un biologo a Topolino, in Id., Il pollice del panda, Roma, Editori Riuniti, 1983; ed. più recente: Milano, il Saggiatore, 2012].
Sean Griffin, Tinker Belles and Evil Queens. The Walt Disney Company from the Inside Out, New York, New York University Press, 2000.
Leonard Maltin, Of Mice and Magic. A History of American Animated Cartoons (revised ed.), New York, Plume, 1987 [prima ed.: New York, McGraw-Hill, 1980].
Hans Mayer, I diversi, Milano, Garzanti, 1977 [Id., Aussenseiter, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1975].
Russell Merritt - J. B. Kaufman, Walt Disney’s Silly Symphonies. A Companion to the Classic Cartoon Series, Gemona, La Cineteca del Friuli, 2006.
Pinocchio (1940) |
In The Flying Mouse, le ali da pipistrello che la fata fa spuntare sulla schiena del topolino diventano il contrassegno di un’umiliante singolarità, così come in Pinocchio (1940) il naso lungo e gli attributi asinini (a partire dalle orecchie, utilizzate in questo senso anche come dispositivo pedagogico nelle scuole fino ai primi decenni del XX secolo). In altri casi la diversità non obbedisce a un’analoga funzione punitiva, né tantomeno è transitoria. Elmer Elephant, una Silly Symphony del 1936, mette in scena un elefantino discriminato dai compagni per via del suo aspetto buffo. Cacciato dalla festa di compleanno di una tigrotta di nome Tillie, riesce infine a conquistare la simpatia dei compagni (e a ottenere un bacio da Tillie) dopo aver spento un incendio proprio grazie alla sua proboscide. Cinque anni più tardi, l’elefantino protagonista di Dumbo (1941) patisce sofferenze ancora maggiori per via delle sue enormi orecchie a sventola: divenuto un fenomeno da baraccone in un circo (proprio come Pinocchio), si riscatta da tutte le ingiustizie subite quando scopre di essere in grado di volare. In queste storie, così come avviene nella fiaba del brutto anatroccolo, il lieto fine coincide in termini psicologici con l’acquisizione da parte del piccolo protagonista di un’immagine positiva di sé, tale da trasformare ciò che inizialmente era un elemento insensato di diversità in qualcosa di significativo, utile o addirittura speciale.
Due fotogrammi tratti da Elmer Elephant (1936) e Dumbo (1940).
Il discorso sulla diversità si presta d’altro canto a rimettere in discussione determinati stereotipi culturali, come hanno evidenziato negli ultimi anni un numero cospicuo di studi sulla rappresentazione dei generi (gender studies) applicati al cinema di animazione. Le fiabe più famose di Andersen, osservava Hans Mayer, alludevano implicitamente alla condizione di diverso patita in prima persona dall’artista, e in modo più specifico alla sua omosessualità. Nel caso di Walt Disney, al netto di qualsiasi speculazione circa la sua vita privata, il discorso interessa non pochi cartoni animati che sembrano sfidare apertamente le convenzioni sociali e gli stereotipi di genere servendosi di opportune allegorie animalesche: il toro Ferdinando che alla corrida preferisce il profumo dei fiori (Ferdinand the Bull, 1938), il drago che compone poesie e sorseggia tè al posto di sputare fuoco (The Reluctant Dragon, 1941, da un racconto di Kenneth Grahame), il leone dal cuore tenero che vive in un gregge di agnelli (Lambert the Sheepish Lion, 1952) e quello che in società si rende conto di non riuscire a intimidire nessuno (Social Lion, 1954).
L’iconografia dell’outsider disneyano è comunque il più delle volte libera da connotazioni di genere; i suoi tratti distintivi maggiormente ricorrenti, riconoscibili negli attributi della piccolezza e della debolezza, richiamano piuttosto in modo implicito la figura del bambino colto in una dimensione di estraneità nei confronti del mondo degli adulti. In un saggio dedicato a Mickey Mouse, Stephen Jay Gould ha evidenziato quanto nel corso del tempo, a partire dai primi anni ‘30, il suo aspetto e la sua personalità abbiano assunto caratteristiche sempre più infantili, in grado di suscitare nello spettatore una più intensa risposta emotiva. Molti “brutti anatroccoli” disneyani hanno riflesso in modo accentuato, a partire dalla loro fisionomia, il fascino goffo, tenero e grazioso tipico della prima infanzia: il nano Cucciolo (Dopey) di Snow White and the Seven Dwarfs (1937) – l’unico dei sette nani a non avere la barba, nonché il più piccolo –, l’elefantino Dumbo – «cuter and dumber than Dopey,» come recita una locandina dell’epoca –, il pulcino vestito da scolaretto protagonista di Chicken Little (1943), e ancora l’aeroplanino Pedro in un episodio di Saludos Amigos (1943), il piccolo rimorchiatore di Little Toot (in Melody Time, 1948), il minuscolo alce di Morris the Midget Moose (1950) e l’elefantino di Goliath II (1960).
Prove di disegno di Cucciolo (Dopey) per Snow White and the Seven Dwarfs (1936). |
Altre figure discendenti dall’archetipo disneyano del brutto anatroccolo ne hanno invece perduto la fisionomia infantile, conservando però la medesima condizione di outsider e le relative caratteristiche psicologiche (in sintesi, un’irriducibile bontà d’animo e il desiderio di essere amati). La serie include senz’altro Cenerentola (Cinderella, 1950), film tratto da una fiaba dalla tradizione antichissima, ma prosegue anche oltre la morte di Walt Disney con la sirenetta Ariel (The Little Mermaid, 1989, da un’altra fiaba di Andersen), il principe de La Bella e la Bestia (Beauty and the Beast, 1991, da una fiaba del XVIII secolo) e Quasimodo de Il Gobbo di Notre Dame (The Hunchback of Notre Dame, 1996, dal romanzo di Victor Hugo). In anni più recenti, alcuni richiami espliciti alla storia del brutto anatroccolo sono contenuti in una scena chiave di Lilo & Stitch (2002) e in Chicken Little (2005), dove la papera Alba è soprannominata per l’appunto “brutta anatroccola”.
Bibliografia
Walter Benjamin, Mickey Mouse, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2014.
Mariuccia Ciotta, Walt Disney. Prima stella a sinistra, Milano, Bompiani, 2005.
Stephen Jay Gould, Mickey Mouse meets Konrad Lorenz, «Natural History», 88, 5, 1979; poi ristampato col titolo A Biological Homage to Mickey Mouse, in Id., The panda’s thumb, New York, W. W. Norton, 1980 [trad. it.: Omaggio di un biologo a Topolino, in Id., Il pollice del panda, Roma, Editori Riuniti, 1983; ed. più recente: Milano, il Saggiatore, 2012].
Sean Griffin, Tinker Belles and Evil Queens. The Walt Disney Company from the Inside Out, New York, New York University Press, 2000.
Leonard Maltin, Of Mice and Magic. A History of American Animated Cartoons (revised ed.), New York, Plume, 1987 [prima ed.: New York, McGraw-Hill, 1980].
Hans Mayer, I diversi, Milano, Garzanti, 1977 [Id., Aussenseiter, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1975].
Russell Merritt - J. B. Kaufman, Walt Disney’s Silly Symphonies. A Companion to the Classic Cartoon Series, Gemona, La Cineteca del Friuli, 2006.