[Spoiler alert: il lettore che non abbia concluso The Last Guardian e non voglia conoscerne il finale è invitato a non leggere la seconda parte dell’articolo, L’immaginario iniziatico in «The Last Guardian».]
Negli anni Duemila il Team Ico diretto da Fumito Ueda sviluppò due videogiochi di avventura – Ico (2001) e Shadow of the Colossus (2005) – che innovarono l’immaginario del genere e ne ampliarono le possibilità espressive in modi per certi versi impensabili prima di allora. I più attenti critici hanno osservato che l’esperienza offerta da questi giochi non è riducibile all’ambito ludico, ma è comparabile a quella di un’opera d’arte; chiunque, sperimentandone l’atmosfera rarefatta e solitaria nell’esplorare castelli e rovine immensi, deserti e meravigliosi, nei panni di un bambino (Ico) e di un giovane eroe a cavallo (SoC), vi ha riconosciuto il carattere poetico e fiabesco di una storia senza età.
A più di un decennio di distanza dall’uscita del secondo titolo, dopo una lunghissima fase di sviluppo, è finalmente disponibile per PlayStation 4 The Last Guardian (2016), terzo capitolo di quella che idealmente si presenta come una saga, benché le sue storie siano indipendenti l’una dall’altra. Ora, a seguito del lancio del nuovo gioco, molte delle questioni critiche relative alla trilogia di Fumito Ueda possono essere ridiscusse in modo più approfondito e con maggiore cognizione di causa. Le due principali, dal mio punto di vista, riguardano da un lato l’immaginario narrativo, inteso come complesso di figure, motivi e situazioni caratteristici, e dall’altro tutto ciò che concerne l’esperienza di gioco, dal sistema di controlli alle modalità di interazione e identificazione; in altre parole, il “cosa” e il “come”, il versante narrativo-figurativo e quello stilistico-tecnico. In merito alla prima questione – posto che vi sono comunque ampie zone di convergenza tra le due –, un aspetto interessante che accomuna i tre giochi è il loro legame con la tradizione fiabesca e con un repertorio di figure e motivi archetipici riconducibili all’ambito iniziatico dei riti di passaggio.
La storia di Ico presenta già un buon numero di elementi ascrivibili a questo contesto, a partire dal memorabile prologo: un bambino nato con un paio di corna viene condotto da alcuni membri adulti della sua comunità in un enorme castello, e lì imprigionato in un sarcofago di pietra. «Non essere arrabbiato con noi,» gli dice un uomo prima di sigillare il coperchio, «è per il bene del villaggio». Se l’abbandono e la reclusione dei bambini sono notoriamente motivi fiabeschi che ricorrono con estrema frequenza, il loro sacrificio in funzione propiziatoria può essere rapportato a un complesso di tradizioni rituali arcaiche, molte delle quali – come ha dimostrato Vladimir Propp in Le radici storiche dei racconti di fate – sono state oggetto nel tempo, in coincidenza con il progressivo deterioramento del loro significato religioso, di un processo di trasposizione che ha dato origine alla fiaba come genere artistico. Allo scenario iniziatico riconosciuto da Propp come base fondamentale di questo processo, sempre nel prologo di Ico, rimandano il tema del viaggio (che nella fiaba traduce la rappresentazione del passaggio nell’oltretomba), e in particolare le immagini della foresta e della barca che traghetta il bambino verso il castello.
Liberatosi dalla prigionia nel sarcofago grazie a una scossa di terremoto, Ico comincia a esplorare il castello finché in una sala trova Yorda, una fanciulla imprigionata a sua volta in una gabbia simile a una grande voliera per uccelli, e la libera. Di qui in poi, mettendo a confronto la storia di Ico con le strutture proprie della fiaba, al motivo dell’eroe che libera la principessa subentra quello dei due fratelli in fuga dalla casa incantata e in conflitto con la matrigna (Hänsel e Gretel dei fratelli Grimm ne è forse l’esempio più celebre). A proposito della “grande casa”, luogo caratteristico in cui tipicamente si imbatte l’eroe fiabesco e in cui Propp ha individuato le tracce di un istituto peculiare dell’ordinamento del clan, legato alla caccia e al totemismo (Le radici storiche dei racconti di fate, pp. 180-181), molte sono le corrispondenze con il castello di Ico. La “grande casa” ha dimensioni enormi che impressionano l’eroe, è deserta, circondata da un recinto (quindi separata dal mondo esterno) e costruita su colonne (quindi elevata dal suolo), spesso ha l’aspetto grandioso di un palazzo di marmo; l’eroe vi entra, esce, o ne attraversa le sale e i vari piani servendosi di pertugi nascosti, scale, pertiche ecc.
Lo spazio del castello, in Ico, richiama l’immagine del labirinto; l’azione che i due protagonisti ripetono più di frequente è quella del passaggio attraverso stanze e ambienti. Scale, cinghie, corde, catene, binari, ma anche sporgenze, piattaforme sospese in aria, carretti, ascensori, e soprattutto ponti, sono figure del passaggio che nel gioco hanno un enorme rilievo, e sulla base di quanto osserva Propp in merito al significato dei mezzi meccanici di trasporto possono essere interpretate come riflessi di rappresentazioni anteriori di traghetto nell’altro mondo (Le radici storiche dei racconti di fate, pp. 338-340). Anche da questo punto di vista le analogie con le fiabe studiate da Propp sono sorprendenti: «Il ragazzo fece un giro intorno alla casa, non trovò né porte né finestre e voleva tornare indietro. Poi in una colonnina scorse uno sportellino appena visibile, l’aprì ed entrò»; «[…] in questa casa non c’era nessuno. Si aggirò per le stanze… entrò in una stanza speciale, si mise a giacere sul divano per riposare» (Le radici storiche dei racconti di fate, pp. 183-184).
Al tema della fuga dalla “grande casa” subentra con Shadow of the Colossus quello della ricerca (quest) dell’eroe valoroso, topos narrativo caro alla fiaba e alla letteratura cavalleresca. Giunto agli estremi confini del mondo in una terra vastissima, desolata e proibita al cui centro sorge un tempio custodito da un’entità soprannaturale, il giovane Wander chiede a questa entità di restituire la vita a una ragazza sacrificata per via di una maledizione, e in cambio accetta il compito di cercare e uccidere i sedici colossi che abitano quella terra. Durante il suo viaggio il ragazzo è aiutato da un fedele cavallo, Agro, grazie al quale può attraversare le immense distese di terra, e da una potente spada magica in grado di abbattere i colossi e di indicargli, se esposta alla luce del sole, la direzione da seguire per rintracciarli. Si tratta, nella terminologia di Propp, di “doni fatati” tipici della tradizione fiabesca, per mezzo dei quali l’eroe può portare a compimento le sue “imprese difficili”; la stessa funzione era rappresentata in Ico dalla spada magica che nel finale permette al protagonista di sconfiggere la regina cattiva, madre di Yorda, e dai poteri di quest’ultima, che le consentono di aprire portoni sigillati.
Il fascino di Shadow of the Colossus, d’altra parte, risiede non solo nella sua capacità di attingere a figure e motivi archetipici, ma anche nel modo in cui il gioco sembra proporne una rappresentazione ambigua e problematica. L’immagine convenzionale dall’eroe valoroso viene incrinata, nella sequenza finale, dalla scoperta che Wander ha rubato la spada magica senza la quale non avrebbe potuto sconfiggere i colossi, e dal sospetto che il ragazzo, accettando di portare a termine l’impresa a proprio rischio e pericolo, abbia finito per diventare una vittima inconsapevole di forze superiori. Gli stessi colossi sono creature solitarie e schive che non suscitano alcun sentimento di ostilità e per i quali il giocatore, subito dopo averli abbattuti, è portato a sperimentare emozioni dissonanti, come se un novello David si rendesse conto di aver lasciato sul suo cammino il cadavere di un Golia tutto sommato inoffensivo. Il memorabile epilogo della vicenda, dove all’immagine della morte sacrificale si accompagna quella della rinascita e al topos del luogo maledetto quello del giardino edenico, è altrettanto agrodolce: aperto alle molte letture che il giocatore può darvi, compresa quella che vedrebbe nella storia di Shadow of the Colossus le radici di Ico, e in ogni caso lontano dalla consueta e rassicurante retorica del “vissero felici e contenti”.
A più di un decennio di distanza dall’uscita del secondo titolo, dopo una lunghissima fase di sviluppo, è finalmente disponibile per PlayStation 4 The Last Guardian (2016), terzo capitolo di quella che idealmente si presenta come una saga, benché le sue storie siano indipendenti l’una dall’altra. Ora, a seguito del lancio del nuovo gioco, molte delle questioni critiche relative alla trilogia di Fumito Ueda possono essere ridiscusse in modo più approfondito e con maggiore cognizione di causa. Le due principali, dal mio punto di vista, riguardano da un lato l’immaginario narrativo, inteso come complesso di figure, motivi e situazioni caratteristici, e dall’altro tutto ciò che concerne l’esperienza di gioco, dal sistema di controlli alle modalità di interazione e identificazione; in altre parole, il “cosa” e il “come”, il versante narrativo-figurativo e quello stilistico-tecnico. In merito alla prima questione – posto che vi sono comunque ampie zone di convergenza tra le due –, un aspetto interessante che accomuna i tre giochi è il loro legame con la tradizione fiabesca e con un repertorio di figure e motivi archetipici riconducibili all’ambito iniziatico dei riti di passaggio.
Ico (2001) |
La storia di Ico presenta già un buon numero di elementi ascrivibili a questo contesto, a partire dal memorabile prologo: un bambino nato con un paio di corna viene condotto da alcuni membri adulti della sua comunità in un enorme castello, e lì imprigionato in un sarcofago di pietra. «Non essere arrabbiato con noi,» gli dice un uomo prima di sigillare il coperchio, «è per il bene del villaggio». Se l’abbandono e la reclusione dei bambini sono notoriamente motivi fiabeschi che ricorrono con estrema frequenza, il loro sacrificio in funzione propiziatoria può essere rapportato a un complesso di tradizioni rituali arcaiche, molte delle quali – come ha dimostrato Vladimir Propp in Le radici storiche dei racconti di fate – sono state oggetto nel tempo, in coincidenza con il progressivo deterioramento del loro significato religioso, di un processo di trasposizione che ha dato origine alla fiaba come genere artistico. Allo scenario iniziatico riconosciuto da Propp come base fondamentale di questo processo, sempre nel prologo di Ico, rimandano il tema del viaggio (che nella fiaba traduce la rappresentazione del passaggio nell’oltretomba), e in particolare le immagini della foresta e della barca che traghetta il bambino verso il castello.
Liberatosi dalla prigionia nel sarcofago grazie a una scossa di terremoto, Ico comincia a esplorare il castello finché in una sala trova Yorda, una fanciulla imprigionata a sua volta in una gabbia simile a una grande voliera per uccelli, e la libera. Di qui in poi, mettendo a confronto la storia di Ico con le strutture proprie della fiaba, al motivo dell’eroe che libera la principessa subentra quello dei due fratelli in fuga dalla casa incantata e in conflitto con la matrigna (Hänsel e Gretel dei fratelli Grimm ne è forse l’esempio più celebre). A proposito della “grande casa”, luogo caratteristico in cui tipicamente si imbatte l’eroe fiabesco e in cui Propp ha individuato le tracce di un istituto peculiare dell’ordinamento del clan, legato alla caccia e al totemismo (Le radici storiche dei racconti di fate, pp. 180-181), molte sono le corrispondenze con il castello di Ico. La “grande casa” ha dimensioni enormi che impressionano l’eroe, è deserta, circondata da un recinto (quindi separata dal mondo esterno) e costruita su colonne (quindi elevata dal suolo), spesso ha l’aspetto grandioso di un palazzo di marmo; l’eroe vi entra, esce, o ne attraversa le sale e i vari piani servendosi di pertugi nascosti, scale, pertiche ecc.
Ico (2001) |
Lo spazio del castello, in Ico, richiama l’immagine del labirinto; l’azione che i due protagonisti ripetono più di frequente è quella del passaggio attraverso stanze e ambienti. Scale, cinghie, corde, catene, binari, ma anche sporgenze, piattaforme sospese in aria, carretti, ascensori, e soprattutto ponti, sono figure del passaggio che nel gioco hanno un enorme rilievo, e sulla base di quanto osserva Propp in merito al significato dei mezzi meccanici di trasporto possono essere interpretate come riflessi di rappresentazioni anteriori di traghetto nell’altro mondo (Le radici storiche dei racconti di fate, pp. 338-340). Anche da questo punto di vista le analogie con le fiabe studiate da Propp sono sorprendenti: «Il ragazzo fece un giro intorno alla casa, non trovò né porte né finestre e voleva tornare indietro. Poi in una colonnina scorse uno sportellino appena visibile, l’aprì ed entrò»; «[…] in questa casa non c’era nessuno. Si aggirò per le stanze… entrò in una stanza speciale, si mise a giacere sul divano per riposare» (Le radici storiche dei racconti di fate, pp. 183-184).
Al tema della fuga dalla “grande casa” subentra con Shadow of the Colossus quello della ricerca (quest) dell’eroe valoroso, topos narrativo caro alla fiaba e alla letteratura cavalleresca. Giunto agli estremi confini del mondo in una terra vastissima, desolata e proibita al cui centro sorge un tempio custodito da un’entità soprannaturale, il giovane Wander chiede a questa entità di restituire la vita a una ragazza sacrificata per via di una maledizione, e in cambio accetta il compito di cercare e uccidere i sedici colossi che abitano quella terra. Durante il suo viaggio il ragazzo è aiutato da un fedele cavallo, Agro, grazie al quale può attraversare le immense distese di terra, e da una potente spada magica in grado di abbattere i colossi e di indicargli, se esposta alla luce del sole, la direzione da seguire per rintracciarli. Si tratta, nella terminologia di Propp, di “doni fatati” tipici della tradizione fiabesca, per mezzo dei quali l’eroe può portare a compimento le sue “imprese difficili”; la stessa funzione era rappresentata in Ico dalla spada magica che nel finale permette al protagonista di sconfiggere la regina cattiva, madre di Yorda, e dai poteri di quest’ultima, che le consentono di aprire portoni sigillati.
Shadow of the Colossus (2005) |
Il fascino di Shadow of the Colossus, d’altra parte, risiede non solo nella sua capacità di attingere a figure e motivi archetipici, ma anche nel modo in cui il gioco sembra proporne una rappresentazione ambigua e problematica. L’immagine convenzionale dall’eroe valoroso viene incrinata, nella sequenza finale, dalla scoperta che Wander ha rubato la spada magica senza la quale non avrebbe potuto sconfiggere i colossi, e dal sospetto che il ragazzo, accettando di portare a termine l’impresa a proprio rischio e pericolo, abbia finito per diventare una vittima inconsapevole di forze superiori. Gli stessi colossi sono creature solitarie e schive che non suscitano alcun sentimento di ostilità e per i quali il giocatore, subito dopo averli abbattuti, è portato a sperimentare emozioni dissonanti, come se un novello David si rendesse conto di aver lasciato sul suo cammino il cadavere di un Golia tutto sommato inoffensivo. Il memorabile epilogo della vicenda, dove all’immagine della morte sacrificale si accompagna quella della rinascita e al topos del luogo maledetto quello del giardino edenico, è altrettanto agrodolce: aperto alle molte letture che il giocatore può darvi, compresa quella che vedrebbe nella storia di Shadow of the Colossus le radici di Ico, e in ogni caso lontano dalla consueta e rassicurante retorica del “vissero felici e contenti”.
L’immaginario iniziatico in The Last Guardian
Il prologo di The Last Guardian mostra un bambino che si sveglia in una grotta accanto a Trico, un enorme animale fantastico simile al mitologico grifone e dalla natura ibrida di uccello (aquila) e mammifero (gatto). Il bambino, che ricorda solo di aver sognato di volare nell’oscurità, non sa come ha fatto ad arrivare in quel luogo né perché la sua pelle sia ricoperta di segni incomprensibili, e in breve tempo capisce che la sua sopravvivenza dipende da due condizioni strettamente connesse: familiarizzare con Trico e trovare una via d’uscita.
«Avevo sentito parlare di queste enormi bestie mangia-uomini dall’anziano,» spiega la voce narrante che ricorda lo svolgersi dell’avventura. «Tuttavia, nonostante i terrificanti racconti, non avevo paura.» Liberando l’animale dalle catene e dalle lance, dandogli da mangiare e prendendosi cura di lui, il bambino conquista a poco a poco la fiducia di Trico, impara a parlargli e a guidarlo salendogli in groppa, e così pone le basi per instaurare un rapporto di affetto e complicità. L’animale non riesce a volare ma può compiere grandi balzi, ed è in grado di emettere dalla coda una potente scarica di fulmini, se indirizzato da uno specchio magico che il bambino trova in prossimità della grotta. Il suo aiuto è inoltre determinante per sconfiggere le numerose guardie corazzate che sorvegliano il luogo, e da cui il bambino impara a guardarsi non appena esplorando i dintorni della grotta capisce di essere sul fondo di una valle immensa, ai piedi di torri, rovine e castelli appartenenti a una misteriosa quanto oscura civiltà.
Se Trico ricopre a tutti gli effetti, e in modo ancora più rilevante rispetto al cavallo Agro di Shadow of the Colossus, la funzione di animale guida, nello specchio magico è altrettanto facile riconoscere un “dono fatato” analogo alle spade incantate dei due capitoli precedenti. Molti altri elementi del gioco, del resto, provano l’esistenza di un legame intrinseco con la tradizione fiabesca e l’immaginario connesso ai riti di passaggio: posto che questo legame accomuna le tre storie, in The Last Guardian esso assume una forma maggiormente esplicita e articolata, come è possibile rilevare a partire da un confronto con le parole di Propp:
Ora, in un flashback mostrato nella seconda metà di The Last Guardian, il senso della storia si chiarisce allorché il giocatore viene a conoscenza degli eventi che hanno portato il bambino a risvegliarsi nella grotta accanto a Trico: una notte, mentre dormiva assieme ai fratelli, il bambino è stato inghiottito e rapito dall’animale, che l’ha portato con sé nella valle misteriosa in cui ha inizio l’avventura; verso la fine del viaggio un fulmine ha colpito Trico e l’ha fatto cadere al suolo privo di forze; il giorno seguente, un gruppo di guardie ha incatenato l’animale, il quale in seguito ha rigettato il corpo del bambino ancora in vita.
Se i segni comparsi sulla pelle del bambino, prodotti dalla sua permanenza nello stomaco di Trico, corrispondono ai marchi impressi ai fanciulli durante i rituali di iniziazione, il volo verso la valle misteriosa rappresenta una forma simbolica di passaggio nell’aldilà, in un luogo analogo al regno dei morti negli antichi riti e ai paesi lontani e fantastici nella fiaba (cfr. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, p. 447 ss.). Il rapimento è una delle modalità predilette dalla tradizione mitico-fiabesca per introdurre il motivo del viaggio, e l’aquila uno degli animali totemici che in tale tradizione ricopre con maggiore frequenza il ruolo di traghettatore. Le circostanze iniziatiche dell’evento sono inoltre rimarcate dalle parole di un membro del villaggio, «Diventa uno dei prescelti…» (peraltro già menzionate all’inizio del prologo), dal fatto che il bambino venga letteralmente inghiottito da Trico (cfr. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, p. 358 ss.) e dal contesto in cui il rapimento ha luogo (di notte, in un villaggio al centro di una fitta foresta, e presso una casa di legno – la capanna delle fiabe – dove il bambino stava dormendo assieme ai fratelli).
Alla fine dell’avventura, dopo molte peripezie, Trico riprende a volare, e il ritorno al villaggio del bambino, traghettato sempre all’interno del suo corpo, sancisce l’epilogo del rito iniziatico rappresentato metaforicamente dalla storia. Nel filmato finale, ormai adulto e circondato da bambini, il protagonista ritrova per terra lo specchio magico e lo innalza al cielo, memore della straordinaria avventura passata; a molte miglia di distanza, nella grotta in cui tutto ha avuto inizio, il riflesso di un raggio di luce fende l’oscurità della notte, dove al bagliore degli occhi di Trico se ne accompagna un secondo. In poche altre occasioni, o forse mai, un videogioco ha saputo toccare in modo tanto incisivo, delicato e profondo le corde di un immaginario antico quanto l’uomo, la cui risonanza si ritrova nelle fiabe così come nei più alti prodotti della nostra cultura. The Last Guardian, Shadow of the Colossus e Ico testimoniano che le strutture di questo immaginario sono tuttora vive e attuali, ma soprattutto che lo sviluppo di un antico processo simbolico nato nell’ambito del rito, rinnovandosi, non ha cessato di meravigliarci.
Appendice iconografica
Bibliografia e consigli di lettura«Avevo sentito parlare di queste enormi bestie mangia-uomini dall’anziano,» spiega la voce narrante che ricorda lo svolgersi dell’avventura. «Tuttavia, nonostante i terrificanti racconti, non avevo paura.» Liberando l’animale dalle catene e dalle lance, dandogli da mangiare e prendendosi cura di lui, il bambino conquista a poco a poco la fiducia di Trico, impara a parlargli e a guidarlo salendogli in groppa, e così pone le basi per instaurare un rapporto di affetto e complicità. L’animale non riesce a volare ma può compiere grandi balzi, ed è in grado di emettere dalla coda una potente scarica di fulmini, se indirizzato da uno specchio magico che il bambino trova in prossimità della grotta. Il suo aiuto è inoltre determinante per sconfiggere le numerose guardie corazzate che sorvegliano il luogo, e da cui il bambino impara a guardarsi non appena esplorando i dintorni della grotta capisce di essere sul fondo di una valle immensa, ai piedi di torri, rovine e castelli appartenenti a una misteriosa quanto oscura civiltà.
The Last Guardian (2016) |
Se Trico ricopre a tutti gli effetti, e in modo ancora più rilevante rispetto al cavallo Agro di Shadow of the Colossus, la funzione di animale guida, nello specchio magico è altrettanto facile riconoscere un “dono fatato” analogo alle spade incantate dei due capitoli precedenti. Molti altri elementi del gioco, del resto, provano l’esistenza di un legame intrinseco con la tradizione fiabesca e l’immaginario connesso ai riti di passaggio: posto che questo legame accomuna le tre storie, in The Last Guardian esso assume una forma maggiormente esplicita e articolata, come è possibile rilevare a partire da un confronto con le parole di Propp:
Che cos’è l’iniziazione? È uno degli istituti peculiari del regime del clan. Il rito si celebrava al sopraggiungere della pubertà. Con esso il giovinetto veniva introdotto nella comunità della tribù, ne diveniva membro effettivo e acquistava il diritto di contrarre matrimonio. […] si riteneva che durante il rito il fanciullo morisse e quindi risuscitasse come un uomo nuovo. È questa la cosiddetta morte temporanea. La morte e la risurrezione erano provocate da atti raffiguranti l’inghiottimento e il divoramento del fanciullo a opera di animali favolosi. Si immaginava che egli venisse inghiottito da questo animale e, dopo aver trascorso qualche tempo nello stomaco del mostro, ritornasse alla luce, vale a dire fosse sputato fuori o vomitato. […] Il rito si celebrava sempre nel folto della foresta o della boscaglia, ed era circondato dal più profondo mistero; inoltre era accompagnato da torture fisiche e da mutilazioni […]. Al risuscitato s’imponeva un nuovo nome, sulla sua pelle s’imprimevano marchi e altri segni dell’avvenuta celebrazione del rito. (Le radici storiche dei racconti di fate, p. 89)
Ora, in un flashback mostrato nella seconda metà di The Last Guardian, il senso della storia si chiarisce allorché il giocatore viene a conoscenza degli eventi che hanno portato il bambino a risvegliarsi nella grotta accanto a Trico: una notte, mentre dormiva assieme ai fratelli, il bambino è stato inghiottito e rapito dall’animale, che l’ha portato con sé nella valle misteriosa in cui ha inizio l’avventura; verso la fine del viaggio un fulmine ha colpito Trico e l’ha fatto cadere al suolo privo di forze; il giorno seguente, un gruppo di guardie ha incatenato l’animale, il quale in seguito ha rigettato il corpo del bambino ancora in vita.
The Last Guardian (2016) |
The Last Guardian (2016) |
Se i segni comparsi sulla pelle del bambino, prodotti dalla sua permanenza nello stomaco di Trico, corrispondono ai marchi impressi ai fanciulli durante i rituali di iniziazione, il volo verso la valle misteriosa rappresenta una forma simbolica di passaggio nell’aldilà, in un luogo analogo al regno dei morti negli antichi riti e ai paesi lontani e fantastici nella fiaba (cfr. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, p. 447 ss.). Il rapimento è una delle modalità predilette dalla tradizione mitico-fiabesca per introdurre il motivo del viaggio, e l’aquila uno degli animali totemici che in tale tradizione ricopre con maggiore frequenza il ruolo di traghettatore. Le circostanze iniziatiche dell’evento sono inoltre rimarcate dalle parole di un membro del villaggio, «Diventa uno dei prescelti…» (peraltro già menzionate all’inizio del prologo), dal fatto che il bambino venga letteralmente inghiottito da Trico (cfr. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, p. 358 ss.) e dal contesto in cui il rapimento ha luogo (di notte, in un villaggio al centro di una fitta foresta, e presso una casa di legno – la capanna delle fiabe – dove il bambino stava dormendo assieme ai fratelli).
Alla fine dell’avventura, dopo molte peripezie, Trico riprende a volare, e il ritorno al villaggio del bambino, traghettato sempre all’interno del suo corpo, sancisce l’epilogo del rito iniziatico rappresentato metaforicamente dalla storia. Nel filmato finale, ormai adulto e circondato da bambini, il protagonista ritrova per terra lo specchio magico e lo innalza al cielo, memore della straordinaria avventura passata; a molte miglia di distanza, nella grotta in cui tutto ha avuto inizio, il riflesso di un raggio di luce fende l’oscurità della notte, dove al bagliore degli occhi di Trico se ne accompagna un secondo. In poche altre occasioni, o forse mai, un videogioco ha saputo toccare in modo tanto incisivo, delicato e profondo le corde di un immaginario antico quanto l’uomo, la cui risonanza si ritrova nelle fiabe così come nei più alti prodotti della nostra cultura. The Last Guardian, Shadow of the Colossus e Ico testimoniano che le strutture di questo immaginario sono tuttora vive e attuali, ma soprattutto che lo sviluppo di un antico processo simbolico nato nell’ambito del rito, rinnovandosi, non ha cessato di meravigliarci.
Appendice iconografica
Wenceslaus Hollar (1607-1677), A griffin |
Rembrandt, Ratto di Ganimede (1635) |
Atlante sull’Ippogrifo. Illustrazione di Gustave Doré (1877) per l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. |
L’enfant trouvée par un oiseau. Illustrazione tratta da Le Géant aux Cheveux d’or, un volume di fiabe dei fratelli Grimm tradotte in francese. Il titolo originale della fiaba da cui è tratta l’immagine è Fundevogel. |
Il disegno del grifone di Alice’s Adventures in Wonderland (1865), realizzato da John Tenniel su indicazioni di Lewis Carroll. |
La storia infinita (Wolfgang Petersen, 1984), film tratto dal romanzo di Michael Ende Die unendliche Geschichte (1979). |
L’edizione consultata dello studio di Propp è: Vladimir Jakovlevič Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Bollati Boringhieri, 2012 [ed. orig. 1946]. L’altro studio classico di Propp sulla fiaba è Morfologia della fiaba, disponibile in italiano nell’edizione Einaudi a cura di Gian Luigi Bravo [ed. orig. 1928]. Sui riti iniziatici, uno studio antropologico imprescindibile è quello di Arnold Van Gennep, I riti di passaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 2012 [ed. orig. 1909]. Sui legami tra riti iniziatici e fiaba: Sandra Bosco Coletsos, I riti di iniziazione all’età adulta nelle fiabe dei fratelli Grimm, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003. Sul tema dell’animale guida e del viaggio iniziatico: Carlo Donà, Per le vie dell’altro mondo. L’animale guida e il mito del viaggio, Soveria Mannelli (Catanzaro), 2003. Per una più ampia indagine sugli archetipi dell’immaginario, uno studio classico è quello di Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Bari, Dedalo, 2009 [ed. orig. 1960].
Una monografia su Ico è stata pubblicata in italiano nella collana “Ludologica” di Unicopli, la prima collana di studi videoludici in lingua italiana: Ben Mottershead, ICO. Una favola dell’era digitale, Milano, Unicopli, 2007. All’interno della stessa collana si può leggere un’analisi su Ico e Shadow of the Colossus contenuta nel volume di Enzo D’Armenio, Mondi paralleli. Ripensare l’interattività nei videogiochi, Milano, Unicopli, 2014. Per uno studio sui videogame, il loro legame con altri generi letterari (fiaba, mito, letteratura per l’infanzia) e le specificità dell’odierno scenario “crossmediale”: Anna Antoniazzi, Labirinti elettronici. Letteratura per l’infanzia e videogame, Milano, Apogeo, 2007; Anna Antoniazzi, Contaminazioni. Letteratura per ragazzi e crossmedialità, Milano, Apogeo, 2012.
Una monografia su Ico è stata pubblicata in italiano nella collana “Ludologica” di Unicopli, la prima collana di studi videoludici in lingua italiana: Ben Mottershead, ICO. Una favola dell’era digitale, Milano, Unicopli, 2007. All’interno della stessa collana si può leggere un’analisi su Ico e Shadow of the Colossus contenuta nel volume di Enzo D’Armenio, Mondi paralleli. Ripensare l’interattività nei videogiochi, Milano, Unicopli, 2014. Per uno studio sui videogame, il loro legame con altri generi letterari (fiaba, mito, letteratura per l’infanzia) e le specificità dell’odierno scenario “crossmediale”: Anna Antoniazzi, Labirinti elettronici. Letteratura per l’infanzia e videogame, Milano, Apogeo, 2007; Anna Antoniazzi, Contaminazioni. Letteratura per ragazzi e crossmedialità, Milano, Apogeo, 2012.