[Il testo che segue è un estratto leggermente rielaborato dell’introduzione alla mia tesi di laurea – Le redini e la corsa. Una lettura critica degli Anni ciechi di Pier Antonio Quarantotti Gambini –, discussa il 6 aprile 2017 presso l’Università degli Studi di Milano in presenza del relatore Bruno Falcetto e del correlatore Gianni Turchetta.]
A partire dagli esordi legati alla rivista fiorentina «Solaria», in anni in cui la narrativa italiana cominciava ad accogliere e a far proprie le suggestioni europee della modernità, e poi attraverso il fondamentale sodalizio con l’amico e maestro Umberto Saba, Quarantotti Gambini si impose come uno degli autori più raffinati genericamente riconducibili a quell’ambiente triestino che oltre al grande poeta annoverava figure come Italo Svevo, Silvio Benco, Scipio Slataper, Giani e Carlo Stuparich, Virgilio Giotti e Roberto “Bobi” Bazlen, pur dichiarandosi in più occasioni scettico nei confronti dell’esistenza di una vera e propria tradizione letteraria laddove era invece possibile scorgere soltanto singole personalità di spicco.
Il riferimento a Trieste, all’autore che triestino fu per elezione ma più ancora legato da un inestinguibile affetto all’Istria in cui nacque (allora sotto il dominio dell’Impero austro-ungarico), dovette comunque parere suggestivo da una diversa prospettiva come modello ideale di una città di frontiera, situata agli estremi confini dell’Italia e dell’antico Impero, che accoglieva in sé i due volti e le anime così diverse della civiltà mediterranea e di quella mitteleuropea. Formatosi «in parte entro il clima austriaco, serio, elevato e amabile, e in parte entro quello italiano,» Quarantotti Gambini riconobbe in sé «uno scrittore che impersona la transizione tra l’uno e l’altro di questi due momenti»1, e rispetto ad autori «danubiani» come Joseph Roth e Robert Musil definì la specificità dei triestini, al netto di un quid comune derivante dall’appartenenza alla compagine asburgica, richiamandosi alla caratteristica «luce mediterranea»2 che illumina le loro pagine.
Pier Antonio Quarantotti Gambini |
Il felice spunto critico, volendo ripercorrere in breve le tappe della carriera letteraria di Quarantotti Gambini, può dar conto del passaggio da una narrativa dagli accentuati «riflessi danubiani»3, risolta soprattutto nella rappresentazione di spazi interni e dove preminente è il riferimento alla penombra e alla sfera dell’inettitudine e della senilità – è il caso della raccolta di racconti I nostri simili (1932) e del romanzo di ambientazione capodistriana La rosa rossa (1937), che segna comunque una notevole evoluzione rispetto alle prose precedenti –, a una narrativa che in opere come L’onda dell’incrociatore (1947) e La calda vita (1958), richiamandosi al mondo di un’adolescenza e di una giovinezza trascorse all’aria aperta e sviluppando come motivi narrativi i temi della crescita, della scoperta dei sensi e dell’iniziazione inquieta alla vita, assume un respiro tipicamente mediterraneo e un cromatismo più intenso, contrastato e luminoso.
L’approdo a questa nuova stagione letteraria, animata da un’ispirazione che riecheggia un’evidente matrice sabiana, coincise con la comparsa in rivista (1940) e poi in volume (1942) del racconto Le trincee, primo tassello dell’ambizioso ciclo Gli anni ciechi su cui Quarantotti Gambini lavorò in modo discontinuo per più di due decenni fino agli ultimi mesi di vita, pubblicandone alcuni romanzi e lasciandone altri incompiuti o appena abbozzati. Il progetto – un grande polittico narrativo in cui convergono la saga famigliare e l’affresco storico, il racconto autobiografico e il Bildungsroman – affonda le sue radici nel ricordo delle estati di infanzia trascorse all’inizio del secolo nella casa dei nonni a Semedella, in una campagna prossima al monte San Marco e al mare di Capodistria, e si origina come ricreazione letteraria di un’età perduta condotta in terza persona ma sulla base del punto di vista di Paolo de Brionesi Amidei, bambino che incarna l’alter ego dell’autore e all’inizio delle vicende, nell’estate del 1913, ha da poco compiuto tre anni.
Pier Antonio Quarantotti Gambini a Semedella (1913) |
Proveniente da una famiglia di discendenze nobili e di forti ideali irredentisti, nel 1918 Pier Antonio – allora un bambino di otto anni – visse il momento cruciale del passaggio dei territori dell’Istria dall’Impero austro-ungarico al Regno d’Italia, al termine di una guerra cui assisté «con quella dilatazione del tempo e con quella inesauribile meraviglia per i fatti esterni, ingigantiti dall’immaginazione, che tutti hanno conosciuto nella fanciullezza»4, e molti anni dopo l’occupazione tedesca di quelle terre da parte dei nazisti (1943) e dell’armata comunista di Tito (1945), cui fece seguito la definitiva annessione di gran parte dell’Istria alla Jugoslavia (1947) che sancì una volta per tutte l’epilogo di un’epoca assieme a un’insanabile rottura nell’animo dell’autore: «io sono nato in Istria,» scrisse nel 1948 a Saba, «e questa circostanza viene per me prima di ogni altra. Quando si resta avulsi dalla madre patria prima di tutto si pensa ad esserne riuniti»5.
La rievocazione di un’età perduta, negli Anni ciechi, sarà allora quella di un intero mondo ritrovato affettivamente nella memoria di un’infanzia, ma nel quale sono a più riprese percepibili i palpiti inquieti di una coscienza retrospettiva e il senso di un tempo fatale, scandito con assoluta compostezza in una prosa che non si traduce mai in esplicita elegia. La ricchezza polisemica del titolo offre una suggestiva chiave di lettura per valutare la portata dell’operazione condotta e le sue molteplici implicazioni: gli anni “ciechi” sono innanzitutto quelli dell’inconsapevolezza infantile, dello sguardo che si fissa per la prima volta sulle cose senza poterle comprendere a fondo, ma alludono anche a una poetica dell’interiorità che mediante il ricordo si incarica di illuminarne il senso più intimo e complessivo, e possono inoltre essere letti in una prospettiva storica in riferimento alle vicende dell’Istria, che come il piccolo Paolo attraversa negli anni a cavallo della prima guerra mondiale un’età di passaggio e di grandi trasformazioni.
Prologo all’opera è il brano Tre bandiere, che narra il dolente ritorno da esule e adulto alla terra natale ormai irriconoscibile e prelude per Paolo e per il lettore a un vertiginoso tuffo alle origini di una storia che si dipana poi nei vari romanzi, restituendo con limpida esattezza l’impressione di una vita nel suo immediato accadere in parallelo al suo graduale sedimentarsi nell’interiorità del giovane protagonista: dalle prime scoperte infantili delle Redini bianche, dove il piccolo mondo dell’Istria riaffiora nello sguardo incantato del bimbo per le carrozze e i cavalli del nonno come emblema di una geografia sentimentale che corrisponde a una mitologia famigliare, alle vicende della guerra adombrate nella Corsa di Falco e Il cavallo Tripoli, centro focale del ciclo che intreccia l’attesa per la fine del conflitto italo-austriaco a una densa rappresentazione analitica ma di sapore quasi fiabesco delle fantasie e delle delusioni del bambino, fino all’età postbellica che nell’Amore di Lupo e I giochi di Norma annuncia in toni realistici e drammatici e poi evocativi e malinconici l’addio all’infanzia e l’avvento dei primi turbamenti adolescenziali.
Ora, a distanza di un secolo dalle vicende che hanno ispirato la stesura del ciclo, leggere Gli anni ciechi significa non solo confrontarsi con una delle più raffinate e peculiari opere letterarie del Novecento italiano – che tra i suoi pregi maggiori annovera una rappresentazione complessa e coerente del mondo infantile e delle sue modalità di scoperta della realtà, comprese le varie tappe di un’esperienza pulsionale delineata in termini spregiudicati nella sua intima ricchezza – ma anche riallacciare un dialogo con la memoria privata e storica di un’epoca che nei romanzi di Quarantotti Gambini ha trovato la sua espressione più vivida. «Grazie a un ricordo,» recita una poesia dell’autore, «spesso in noi rivive / anche un altro ricordo»6.
Note
1 Gian Antonio Cibotto, Quarantotti Gambini, “un italiano sbagliato”, in Pier Antonio Quarantotti Gambini, Opere scelte, a cura di Mauro Covacich, Milano, Bompiani, 2015, pp. 1482-1483 [intervista tratta da «La Fiera Letteraria», 15 novembre 1964].
2 Ivi, p. 1483.
3 Ibidem.
4 La citazione, tratta da una nota autobiografica, si legge in Carlo Bo, Celebrazione di P. A. Quarantotti Gambini, Trieste, Circolo della Cultura e delle Arti, 1968, p. 18.
5 Lettera di Quarantotti Gambini a Saba, 14/4/1948, in Umberto Saba - Pier Antonio Quarantotti Gambini, Caro 48. Carissimo Saba. Lettere edite e inedite 1930-1957, a cura di Daniela Picamus, Trieste, Libreria antiquaria Drogheria 28, 2015, p. 101.
6 Pier Antonio Quarantotti Gambini, Un ramo fiorito, in Id., Al sole e al vento, Torino, Einaudi, 1970, p. 97.
Bibliografia essenziale
Pier Antonio Quarantotti Gambini, Gli anni ciechi, Torino, Einaudi, 1971.
«Pagine Istriane», XXX, 28-29, dicembre 1970.
Quarantotti Gambini. L’onda del narratore, catalogo della mostra, Trieste, palazzo Gopcevich, sala Attilio Selva, 16 ottobre-12 dicembre 2010, a cura di Marta Angela Agostina Moretto e Daniela Picamus, Trieste, Edizioni Comune di Trieste, 2010.
Il tempo fa crescere tutto ciò che non distrugge. L’opera di Pier Antonio Quarantotti Gambini nei suoi aspetti letterari ed editoriali, atti delle giornate di studio, Trieste, 15-16 aprile 2010, a cura di Daniela Picamus, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2011.
Giulia Iannuzzi, Sotto il cielo di Trieste. Fortuna critica e bibliografia di Pier Antonio Quarantotti Gambini, prefazione di Elvio Guagnini, Milano, Biblion, 2013.
Daniela Picamus, Pier Antonio Quarantotti Gambini. Lo scrittore e i suoi editori, Venezia, Marsilio, 2012.
Riccardo Scrivano, P. A. Quarantotti Gambini, Firenze, La Nuova Italia, 1976.
[In copertina: Marino Marini, Il sogno del cavaliere (1960, particolare)]