Tra le uscite a fumetti degli ultimi mesi spiccano due titoli di Kazuo “Umezz” Umezu, un mangaka attivo dagli anni ’50 agli anni ’90 ma del quale fino ad oggi non era stata tradotta alcuna opera in italiano: Aula alla deriva (pubblicato da Hikari) e Cat Eyed Boy (Latitudine 42). La riscoperta in differita di questo autore ancora vivente, tanto più significativa in quanto in Giappone rappresenta un maestro indiscusso e una figura fondamentale nella storia del manga, può essere rapportata a quella che in Italia ha interessato nel recente passato, e promette di farlo anche nell’immediato futuro, autori di gekiga (Yoshihiro Tatsumi, Tadao e Yoshiharu Tsuge), maestri dell’horror (Junji Ito) e opere anomale e controverse di mangaka celebri (La scuola senza pudore di Go Nagai).
Il caso di Umezu riunisce i tre aspetti del fenomeno e si pone dunque al crocevia di queste tendenze, ma ha anche un respiro più ampio. Nell’ultimo quindicennio, infatti, ha coinvolto diversi paesi occidentali, a partire dalla Francia, dagli Stati Uniti e dalla Spagna, con un picco di interesse in coincidenza delle prime traduzioni francesi (2004), inglesi (2006) e spagnole (2008) dei volumi di Aula alla deriva, generalmente considerato il suo capolavoro. Ora, benché negli ultimi anni si sia assistito a un rilancio, come testimoniano proprio le prime edizioni italiane e soprattutto il progetto francese di Le Lézard Noir (una collezione di titoli finora inediti al di fuori del Giappone), il fenomeno sembra per molte ragioni ancora lontano dall’esaurirsi.
Se è vero che diverse opere di Umezu rimangono inaccessibili al lettore occidentale perché non tradotte, un altro motivo per cui oltreoceano la fama dell’autore è tuttora modesta e risulta difficile pervenire a una visione complessiva sulla sua figura risiede nell’obiettiva singolarità che la caratterizza da più punti di vista. Personaggio istrionico come pochi altri, Umezu è stato tra le altre cose un attore, un regista e un cantautore, e oggi, a più di ottant’anni, è una celebrità mediatica che colleziona comparse sulle emittenti televisive e sui giornali giapponesi, immediatamente riconoscibile dalle magliette a strisce bianche e rosse e dal relativo cappello a visiera che indossa in ogni occasione. Un’idea abbastanza precisa della peculiare immagine pubblica costruita per sé dall’autore si riflette ad esempio nella sua casa a Tokyo, divenuta una vera e propria attrazione turistica malgrado alcuni tentativi dei vicini di bloccarne l’edificazione per via giudiziaria: a metà tra un’abitazione e un museo privato consacrato alla propria arte, le sue stanze colme di gadget infantili evocano l’incrocio tra una moderna Wunderkammer dell’epoca dei consumi, una casa di bambole in scala reale, la versione ingigantita della cameretta di un bambino e la fortezza di un tempo perduto forse affine al Neverland Ranch di Michael Jackson.
La stessa etichetta di maestro del manga horror con cui è perlopiù noto, utile per identificare genericamente gran parte della sua produzione, è riduttiva per almeno due motivi. Innanzitutto Umezu è stato anche autore di serie umoristiche come Again (1971–72), storia di un anziano signore che trova il modo di ringiovanire fino a ridiventare ragazzo, e il gag manga Makoto-chan (1976–81), tripudio di comicità puerile e scatologica nato come spin-off di quest’ultima serie incentrato sulle avventure di un bambino col perenne moccio al naso, e poi divenuto in Giappone la sua opera di gran lunga più celebre e iconica. In secondo luogo, il richiamo alla sfera dell’orrore è pertinente ma non esaustivo, perché in non pochi manga di Umezu i motivi caratteristici del genere sono contaminati o addirittura sovrastati da altre influenze (prima tra tutte la fantascienza), e in ogni caso modulati di volta in volta in una ricca varietà di soluzioni, come è soprattutto evidente nelle sue opere più tarde.
Il caso di Umezu riunisce i tre aspetti del fenomeno e si pone dunque al crocevia di queste tendenze, ma ha anche un respiro più ampio. Nell’ultimo quindicennio, infatti, ha coinvolto diversi paesi occidentali, a partire dalla Francia, dagli Stati Uniti e dalla Spagna, con un picco di interesse in coincidenza delle prime traduzioni francesi (2004), inglesi (2006) e spagnole (2008) dei volumi di Aula alla deriva, generalmente considerato il suo capolavoro. Ora, benché negli ultimi anni si sia assistito a un rilancio, come testimoniano proprio le prime edizioni italiane e soprattutto il progetto francese di Le Lézard Noir (una collezione di titoli finora inediti al di fuori del Giappone), il fenomeno sembra per molte ragioni ancora lontano dall’esaurirsi.
Aula alla deriva (1972–74) |
Se è vero che diverse opere di Umezu rimangono inaccessibili al lettore occidentale perché non tradotte, un altro motivo per cui oltreoceano la fama dell’autore è tuttora modesta e risulta difficile pervenire a una visione complessiva sulla sua figura risiede nell’obiettiva singolarità che la caratterizza da più punti di vista. Personaggio istrionico come pochi altri, Umezu è stato tra le altre cose un attore, un regista e un cantautore, e oggi, a più di ottant’anni, è una celebrità mediatica che colleziona comparse sulle emittenti televisive e sui giornali giapponesi, immediatamente riconoscibile dalle magliette a strisce bianche e rosse e dal relativo cappello a visiera che indossa in ogni occasione. Un’idea abbastanza precisa della peculiare immagine pubblica costruita per sé dall’autore si riflette ad esempio nella sua casa a Tokyo, divenuta una vera e propria attrazione turistica malgrado alcuni tentativi dei vicini di bloccarne l’edificazione per via giudiziaria: a metà tra un’abitazione e un museo privato consacrato alla propria arte, le sue stanze colme di gadget infantili evocano l’incrocio tra una moderna Wunderkammer dell’epoca dei consumi, una casa di bambole in scala reale, la versione ingigantita della cameretta di un bambino e la fortezza di un tempo perduto forse affine al Neverland Ranch di Michael Jackson.
Kazuo Umezu e la sua casa a Tokyo, nel quartiere Kichijōji. |
La stessa etichetta di maestro del manga horror con cui è perlopiù noto, utile per identificare genericamente gran parte della sua produzione, è riduttiva per almeno due motivi. Innanzitutto Umezu è stato anche autore di serie umoristiche come Again (1971–72), storia di un anziano signore che trova il modo di ringiovanire fino a ridiventare ragazzo, e il gag manga Makoto-chan (1976–81), tripudio di comicità puerile e scatologica nato come spin-off di quest’ultima serie incentrato sulle avventure di un bambino col perenne moccio al naso, e poi divenuto in Giappone la sua opera di gran lunga più celebre e iconica. In secondo luogo, il richiamo alla sfera dell’orrore è pertinente ma non esaustivo, perché in non pochi manga di Umezu i motivi caratteristici del genere sono contaminati o addirittura sovrastati da altre influenze (prima tra tutte la fantascienza), e in ogni caso modulati di volta in volta in una ricca varietà di soluzioni, come è soprattutto evidente nelle sue opere più tarde.
Ripercorrendo in breve la carriera da mangaka di Kazuo Umezu, dall’esordio a diciannove anni con un adattamento in stile tezukiano da Hansel e Gretel, Mori no Kyoudai (I fratelli nella foresta, 1955), fino al ritiro quarant’anni più tardi a causa di una tendinite, ennesime conferme a quanto appena detto circa un’identità autoriale versatile e tutt’altro che univoca sono Romance no Kusuri (Il filtro d’amore, 1962) e Ultraman (1966–67). Il primo manga, un classico shōjo per ragazze, lo consacrò a pioniere della commedia romantica a fumetti; il secondo, una rivisitazione a fumetti nata sulla scia della popolare serie tv di Eiji Tsuburaya, rappresenta la più antica incursione di Umezu nei territori di una fantascienza condita con molte trovate orrorifiche e bizzarre.
Mori no Kyoudai (1955) e Makoto-chan (1976–81).
La grande svolta nella carriera di Umezu avvenne tra la metà degli anni ’60 e i primi anni ’70, quando con la pubblicazione delle prime importanti storie horror contribuì a fondare un nuovo genere di manga, caratterizzato per l’appunto dalle tematiche orrorifiche. Come ha scritto Bouissou, l’orrore nei fumetti giapponesi è spesso legato a una sfera simbolica e morfologica che rimanda al femminile (dalle spirali “aspiranti, alle bocche voraci, ai fluidi vischiosi e dissolventi, alle fecondazioni impure, fino al rossetto diabolico”) piuttosto che al maschile (spade, lame e altri sostituiti fallici). Ciò detto, è significativo il fatto che Umezu inauguri la sua carriera nell’orrore traendo ispirazione proprio da una rinnovata e spregiudicata visione della femminilità, ovvero attraverso alcune storie shōjo horror che risultarono all’epoca tanto più impressionanti (e appetibili per un pubblico più ampio, anche più adulto e maschile) in quanto ribaltavano completamente l’intero spettro di immagini convenzionali veicolate dai fumetti per ragazze. Appartengono a questo periodo Mama ga kowai (Ho paura di mamma, 1965), Beni-gumo (Il ragno rosso, 1965) e Hebi Shōjo (La ragazza serpente, 1966), notevoli per la messa in scena di figure di matrigne e madri divoratrici accompagnate da animali o possedute da demoni tipicamente associati a livello archetipico al lato più oscuro del femminile.
A partire dal 1967 fecero la loro comparsa i racconti di Nekome Kozō (Cat Eyed Boy, 1967–76), collegati dalla figura di un misterioso bambino dagli occhi felini reietto da tutti e specializzato suo malgrado nell’accompagnarsi a terribili sciagure dovunque si trovi. Rispetto alle precedenti storie, i racconti di Cat Eyed Boy presentano un più ampio campionario di creature demoniache e spiritiche appartenenti o affini al mondo del folklore orientale (i cosiddetti yōkai), sulla scia di un filone di cui fanno parte il Kitarō di Shigeru Mizuki e il Dororo di Osamu Tezuka. Se già in queste storie il riferimento alla sfera del soprannaturale non è esclusivo, ma sempre sostenuto da una trama di relazioni emotive e psicologiche spesso implicata nella stessa caratterizzazione dei personaggi “mostruosi” e nelle motivazioni alla base dei loro atti, un ulteriore approfondimento della tematica psicologica – a fronte di una riduzione dell’elemento soprannaturale – si riscontra poi nei racconti di Orochi (1969–70), dove uno spirito femminile immortale, nelle sue varie incarnazioni, assume il ruolo di spettatore delle vicissitudini umane, attraverso una serie di eventi costellata di violenze, delitti, ossessioni e problematiche famigliari.
A partire dagli anni ’70, e poi in modo sempre più marcato nei decenni successivi, la vena artistica di Umezu si concentrò soprattutto nella creazione di serie di ampio respiro, dando vita a capolavori come il già citato Hyōryū Kyōshitsu (Aula alla deriva, 1972–74) e Watashi wa Shingo (Io sono Shingo, 1982–86), pur senza abbandonare del tutto il formato della storia breve. Già nei racconti di questo periodo, del resto, emergono molti degli elementi caratteristici dello stile che l’autore avrebbe raffinato nel corso degli anni, e che ora può essere utile richiamare prima di prendere in esame altre opere.
Tra i principali espedienti narrativi sfruttati da Umezu per approfondire la tematica orrorifica dandogli uno spessore psicologico o comunque una maggiore risonanza, uno dei più rilevanti – dato anche il frequente impiego nelle opere della maturità – è quello del conflitto tra prospettive diverse e inconciliabili, declinato di volta in volta in riflessione sulla normalità e la mostruosità, sui vari livelli del reale, sull’incoerenza tra mondo esteriore e interiore e sul confronto traumatico tra età differenti della vita. L’orrore rappresentato da Umezu nasce spesso dal verificarsi di un incontro imprevisto, da uno choc improvviso di cui non si comprendono le ragioni, ma è al tempo stesso radicato in molti aspetti della vita quotidiana e trae buona parte della sua forza, anche nei casi più estremi, dal suo carattere fondamentalmente umano. Esattamente come un incubo, il suo essere spaventoso non gli è proprio in sé e per sé, ma in quanto espressione improvvisa e ingovernabile di una realtà sconosciuta al sognatore e tuttavia intimamente connessa alla sua vita interiore.
Un esempio dell’abilità propria dell’autore nella messa in scena di questo orrore dalle sembianze umane può essere tratto da una breve storia pubblicata nel 1975 e intitolata Negai (Il voto maledetto), dove la vicenda di un bambino che costruisce un pupazzo e vorrebbe fargli prendere vita, salvo poi rischiare di divenirne succube quando il suo desiderio si realizza, ispira una raffinata esposizione narrativa della psicologia infantile e dei suoi affetti che mette in campo non solo un topos cardine del genere horror, ovvero il tema del doppio, ma anche suggestioni di psicoanalitica memoria come il “ritorno del represso”, un discorso implicito sulla scoperta della sessualità e una considerazione finale sull’epilogo dei sogni d’infanzia.
L’efficacia delle storie, e in particolare delle svolte narrative più marcate, è poi ottenuta a livello grafico con l’adozione di uno stile scarno, preciso ed essenziale, privo di inutili manierismi e tipicamente focalizzato sulla raffigurazione dei volti umani e delle loro espressioni, cui fa riscontro una composizione delle pagine di immediata lettura e notevole impatto visivo, con vignette di grandezza variabile inframezzate da singole immagini più ampie, o addirittura a tavola intera. Se le icastiche immagini di persone terrorizzate, con gli occhi spalancati e il viso deformato dalla paura, sono una sorta di marchio di fabbrica dell’autore e probabilmente l’aspetto più riconoscibile a colpo d’occhio del suo lavoro, una delle più importanti lezioni stilistiche di Umezu può essere in effetti rintracciata nella messa in pagina dell’orrore, ovvero nel fatto che lo spettro di emozioni delineato nelle sue storie, in virtù delle modalità con cui è reso graficamente e riprodotto nella successione di vignette e tavole, sembra trovare una corrispondenza pressoché perfetta nell’esperienza percettiva offerta al lettore.
Note
La citazione di Bouissou è tratta da Jean-Marie Bouissou, Il manga. Storia e universi del fumetto giapponese, a cura di Marco Pellitteri, Tunué, 2011 (ed. originale 2010), p. 272. I tre racconti appartenenti al ciclo Hebi Onna (La donna serpente, 1965–66), che comprendono Mama ga kowai e Hebi Shōjo, si possono leggere in inglese su Reptilia (IDW, 2007) e in francese su La femme-serpent (Le Lezard Noir, 2016). Le storie di Cat Eyed Boy (1967–76) sono state tradotte in italiano e raccolte in tre volumi (il primo uscito nel 2016, il secondo nel 2017) da Latitudine 42. I nove racconti di Orochi (1969–70) si possono leggere in inglese su Orochi: Blood (Viz, 2002). Altri racconti, originariamente apparsi dal 1968 al 1973, si leggono in francese su La maison aux insectes (Le Lezard Noir, 2015). Altri racconti più tardi – tra cui i due citati ad esempio – si leggono in francese su Le vœu maudit (Le Lezard Noir, 2016), che raccoglie storie originariamente apparse dal 1975 al 1992. Altri racconti di Umezu tradotti in lingua inglese si trovano nei tre volumi della serie Scary book (Reflections, Insects e Faces) pubblicati da Dark Horse nel 2006.
A partire dal 1967 fecero la loro comparsa i racconti di Nekome Kozō (Cat Eyed Boy, 1967–76), collegati dalla figura di un misterioso bambino dagli occhi felini reietto da tutti e specializzato suo malgrado nell’accompagnarsi a terribili sciagure dovunque si trovi. Rispetto alle precedenti storie, i racconti di Cat Eyed Boy presentano un più ampio campionario di creature demoniache e spiritiche appartenenti o affini al mondo del folklore orientale (i cosiddetti yōkai), sulla scia di un filone di cui fanno parte il Kitarō di Shigeru Mizuki e il Dororo di Osamu Tezuka. Se già in queste storie il riferimento alla sfera del soprannaturale non è esclusivo, ma sempre sostenuto da una trama di relazioni emotive e psicologiche spesso implicata nella stessa caratterizzazione dei personaggi “mostruosi” e nelle motivazioni alla base dei loro atti, un ulteriore approfondimento della tematica psicologica – a fronte di una riduzione dell’elemento soprannaturale – si riscontra poi nei racconti di Orochi (1969–70), dove uno spirito femminile immortale, nelle sue varie incarnazioni, assume il ruolo di spettatore delle vicissitudini umane, attraverso una serie di eventi costellata di violenze, delitti, ossessioni e problematiche famigliari.
Mama ga kowai (1965) |
Cat Eyed Boy (1967–76) e Orochi (1969–70).
A partire dagli anni ’70, e poi in modo sempre più marcato nei decenni successivi, la vena artistica di Umezu si concentrò soprattutto nella creazione di serie di ampio respiro, dando vita a capolavori come il già citato Hyōryū Kyōshitsu (Aula alla deriva, 1972–74) e Watashi wa Shingo (Io sono Shingo, 1982–86), pur senza abbandonare del tutto il formato della storia breve. Già nei racconti di questo periodo, del resto, emergono molti degli elementi caratteristici dello stile che l’autore avrebbe raffinato nel corso degli anni, e che ora può essere utile richiamare prima di prendere in esame altre opere.
Tra i principali espedienti narrativi sfruttati da Umezu per approfondire la tematica orrorifica dandogli uno spessore psicologico o comunque una maggiore risonanza, uno dei più rilevanti – dato anche il frequente impiego nelle opere della maturità – è quello del conflitto tra prospettive diverse e inconciliabili, declinato di volta in volta in riflessione sulla normalità e la mostruosità, sui vari livelli del reale, sull’incoerenza tra mondo esteriore e interiore e sul confronto traumatico tra età differenti della vita. L’orrore rappresentato da Umezu nasce spesso dal verificarsi di un incontro imprevisto, da uno choc improvviso di cui non si comprendono le ragioni, ma è al tempo stesso radicato in molti aspetti della vita quotidiana e trae buona parte della sua forza, anche nei casi più estremi, dal suo carattere fondamentalmente umano. Esattamente come un incubo, il suo essere spaventoso non gli è proprio in sé e per sé, ma in quanto espressione improvvisa e ingovernabile di una realtà sconosciuta al sognatore e tuttavia intimamente connessa alla sua vita interiore.
Negai (1975) |
Un esempio dell’abilità propria dell’autore nella messa in scena di questo orrore dalle sembianze umane può essere tratto da una breve storia pubblicata nel 1975 e intitolata Negai (Il voto maledetto), dove la vicenda di un bambino che costruisce un pupazzo e vorrebbe fargli prendere vita, salvo poi rischiare di divenirne succube quando il suo desiderio si realizza, ispira una raffinata esposizione narrativa della psicologia infantile e dei suoi affetti che mette in campo non solo un topos cardine del genere horror, ovvero il tema del doppio, ma anche suggestioni di psicoanalitica memoria come il “ritorno del represso”, un discorso implicito sulla scoperta della sessualità e una considerazione finale sull’epilogo dei sogni d’infanzia.
L’efficacia delle storie, e in particolare delle svolte narrative più marcate, è poi ottenuta a livello grafico con l’adozione di uno stile scarno, preciso ed essenziale, privo di inutili manierismi e tipicamente focalizzato sulla raffigurazione dei volti umani e delle loro espressioni, cui fa riscontro una composizione delle pagine di immediata lettura e notevole impatto visivo, con vignette di grandezza variabile inframezzate da singole immagini più ampie, o addirittura a tavola intera. Se le icastiche immagini di persone terrorizzate, con gli occhi spalancati e il viso deformato dalla paura, sono una sorta di marchio di fabbrica dell’autore e probabilmente l’aspetto più riconoscibile a colpo d’occhio del suo lavoro, una delle più importanti lezioni stilistiche di Umezu può essere in effetti rintracciata nella messa in pagina dell’orrore, ovvero nel fatto che lo spettro di emozioni delineato nelle sue storie, in virtù delle modalità con cui è reso graficamente e riprodotto nella successione di vignette e tavole, sembra trovare una corrispondenza pressoché perfetta nell’esperienza percettiva offerta al lettore.
Un esempio eloquente del modo in cui Umezu fa uso di immagini a tavola intera (in questo caso addirittura in sequenza) per trasmettere le emozioni dei suoi personaggi è presente nella storia breve La falce (1985), dove un uomo e la sua figlioletta vanno a far visita all’anziana madre di lui, trovandola morta in una bara e finendo vittime di una maledizione.
Note
La citazione di Bouissou è tratta da Jean-Marie Bouissou, Il manga. Storia e universi del fumetto giapponese, a cura di Marco Pellitteri, Tunué, 2011 (ed. originale 2010), p. 272. I tre racconti appartenenti al ciclo Hebi Onna (La donna serpente, 1965–66), che comprendono Mama ga kowai e Hebi Shōjo, si possono leggere in inglese su Reptilia (IDW, 2007) e in francese su La femme-serpent (Le Lezard Noir, 2016). Le storie di Cat Eyed Boy (1967–76) sono state tradotte in italiano e raccolte in tre volumi (il primo uscito nel 2016, il secondo nel 2017) da Latitudine 42. I nove racconti di Orochi (1969–70) si possono leggere in inglese su Orochi: Blood (Viz, 2002). Altri racconti, originariamente apparsi dal 1968 al 1973, si leggono in francese su La maison aux insectes (Le Lezard Noir, 2015). Altri racconti più tardi – tra cui i due citati ad esempio – si leggono in francese su Le vœu maudit (Le Lezard Noir, 2016), che raccoglie storie originariamente apparse dal 1975 al 1992. Altri racconti di Umezu tradotti in lingua inglese si trovano nei tre volumi della serie Scary book (Reflections, Insects e Faces) pubblicati da Dark Horse nel 2006.