Un paio di settimane fa è apparso su Doppiozero un mio articolo dedicato al filone “apocrifo” e sperimentale della narrativa di Stanisław Lem – scrittore polacco noto soprattutto per il romanzo di fantascienza Solaris (1961) –, a partire da un’opera pubblicata da poco in Italia e interamente incentrata sul tema dell’intelligenza artificiale, GOLEM XIV (il Sirente, 2017).
In un’ulteriore riflessione che non ha trovato spazio nell’articolo definitivo, ma che qui propongo come una sorta di appendice, ho cercato di ampliare il discorso da un punto di vista narratologico con esempi tratti sia da GOLEM XIV che da un altro apocrifo di Lem, ovvero il testo Non serviam contenuto nella raccolta di recensioni immaginarie Vuoto assoluto (Voland, 2010). Prima di leggere questa appendice, per chi non avesse ancora letto l’articolo originale, rimando alla relativa pagina su Doppiozero.
Gli apocrifi di Stanisław Lem
Appendice
Michail Bachtin definì il romanzo come un genere polifonico, nel quale possono interagire una moltitudine di voci e punti di vista appartenenti a diversi personaggi, prendendo a modello l’opera di Dostoevskij. Lem, la cui posizione somiglia a quella che attribuisce a GOLEM XIV quando osserva che rispetto alle antinomie romanzesche “può essere interessato alle strutture, ma non al pittoresco tormento che tanto affascina i grandi scrittori”, fa dire al prototipo che è possibile ridurre l’intera opera dell’autore dei Fratelli Karamazov “a due anelli di algebra di strutture in conflitto”. Di tutte le opere di Lem, GOLEM XIV è il solo apocrifo breve che ha potuto svilupparsi fino a diventare il libro autonomo di cui inizialmente era la sola prefazione, ed è per questo motivo un apocrifo all’ennesima potenza che esibisce in forma cristallina due peculiarità congiunte della scrittura sperimentale dell’autore: da un lato, il definitivo superamento di qualsiasi forma di narrazione diretta; dall’altro, l’elaborazione di un nuovo genere di polifonia al netto dell’intreccio romanzesco.
È evidente che tale polifonia ha la sua sede privilegiata nel paratesto, o in ciò che Genette chiama la soglia del testo; in GOLEM XIV si contano così una prefazione, un’introduzione, una serie di istruzioni “per le persone che partecipano per la prima volta alle conversazioni con il GOLEM” e una postfazione, ma una natura liminale è propria anche delle due conferenze centrali, che sono rispettivamente la prima e l’ultima concesse all’uomo dall’intelligenza artificiale. L’effetto polifonico è ottenuto dapprima attraverso la presentazione di testi appartenenti a persone diverse e che veicolano opinioni diverse, come nel caso di GOLEM XIV le due prefazioni che danno conto delle divergenze tra MIT e Pentagono, o nel caso delle recensioni l’opposizione tra un volume di cui si parla e la sua critica, e in secondo luogo per il fatto che tali testi non si limitano a presentare le opinioni dell’autore, ma ricapitolano a loro volta numerosi altri dibattiti, secondo un procedimento che ricorda quello delle scatole cinesi. Si potrebbe obiettare che la polifonia ottenuta in questo modo riguarda documenti e opinioni astratte cui è estraneo il minimo impulso vitale, oltre a essere prodotta in assenza di personaggi di spessore o al più in presenza di figure degne della Flatland di Edwin A. Abbott. Del resto, se il modello a cui tale procedimento si rifà anche in forma esplicitamente parodica è senz’altro il dibattito scientifico con la sua parcellizzazione dei saperi e il suo eccessivo grado di specializzazione, i messaggi e gli interrogativi più o meno impliciti che è sempre possibile rintracciare al di là di tutte le opinioni sono di portata ben più ampia, per non dire universale.
Un passo della seconda introduzione contenuta in GOLEM XIV, anonima nell’edizione italiana ma accreditata in altre edizioni a Thomas B. Fuller II, generale dell’esercito statunitense, esemplifica molto bene la tecnica adoperata da Lem: al riferimento specialistico e quasi burocratico, dato dall’opinione altrui citata indicando addirittura il numero della riga in cui si trova, segue una citazione che proietta la vicenda su un orizzonte mitico, portando a sua volta il lettore a interrogarsi sul rapporto tra GOLEM e l’umanità da un nuovo punto di vista.
Cari lettori, vi ho preventivamente avvertito che diffamerò il GOLEM. Non ho altra scelta, dal momento che lui ha infamato i suoi “genitori”, poiché non ha informato nessuno circa il suo passaggio da oggetto a soggetto […]. Non si tratta di accuse o di insinuazioni, poiché nel corso dei lavori della Commissione Speciale del Congresso e del Senato, il GOLEM aveva dichiarato che (cito letteralmente dai verbali delle sedute della Commissione che si trovano nella Biblioteca del Congresso, tomo CCLIX, fascicolo 719, volume 11, pagina 926, riga 20 dall’alto): “seguendo la tradizione non ho informato nessuno, perché anche Dedalo non informò Minosse riguardo ad alcune proprietà della piuma e della cera”.
Un ultimo esempio può essere tratto da Non serviam, recensione contenuta in Vuoto assoluto (e poi riproposta nell’antologia L’io della mente curata da Douglas R. Hofstadter e Daniel C. Dennett) che è probabilmente il capolavoro apocrifo di Lem. L’espediente della critica fittizia è qui impiegato per discutere la pratica della personetica, disciplina che riguarda la produzione artificiale di esseri intelligenti e di universi matematici multidimensionali generati all’interno di un computer. Ripercorrendo le origini e i più recenti sviluppi della disciplina, “definita dal filosofo finlandese Eino Kaikki come la più crudele tra le scienze ideate dall’uomo”, la recensione mette progressivamente in campo questioni come la possibilità di immaginare dimensioni ulteriori rispetto alle tre che l’uomo può sperimentare, la natura della coscienza, il senso dell’evoluzione di una cultura nel tempo e il rapporto tra un’intelligenza artificiale e il suo creatore. Se da un lato emerge una chiara equivalenza tra lo scienziato e Dio, dall’altra sono gli stessi abitanti artificiali degli universi matematici, i cosiddetti personoidi, a evocare la condizione dell’uomo che si interroga sul senso della vita e sull’esistenza di una sfera divina. La vertigine intellettuale che ne risulta, ovvero l’idea di una pluralità infinita di mondi che a loro volta ne contengono altri in miniatura, è analoga a quella che diversi decenni più tardi avrebbero dato certi episodi di Rick and Morty e Black Mirror, ma è amplificata sulla pagina dalla corrispondenza tra il contenuto e il procedimento formale “a scatole cinesi”.
Per poter descrivere l’impensabile, si sarebbe tentati di dire, lo scrittore non poteva che servirsi di una forma quanto più estrema possibile rispetto alle convenzioni letterarie, e il fatto che ciò non gli abbia impedito di recuperare un effetto romanzesco come quello polifonico, o per meglio dire inventarne ex novo un’inedita forma al di fuori del dominio del romanzo, testimonia della grandezza rara e per molti versi unica di Lem. Ora il XXI secolo cui appartenevano nella finzione i suoi apocrifi è arrivato, ma a riprova della loro efficacia il lettore odierno può ancora salutare tali scritti come insoliti lavori di sperimentazione. Mentre si iniziano a contare le profezie contenute nelle sue opere, allora, il tributo più sincero non dovrebbe tanto definire Lem un veggente, quanto uno scrittore del futuro del quale ancora non si conoscono eredi.
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