In un articolo intitolato “Il pianeta come festival”, apparso nel 1972 su Casabella (n. 365) e l’anno seguente su Design Quarterly (n. 89), Ettore Sottsass jr. immaginava un futuro nel quale le città fossero scomparse dalla faccia della Terra, polverizzate dalla «decentralizzazione esplosiva della distribuzione dei consumi», con parole che oggi, lette a prescindere dal contesto culturale dell’epoca, non possono che richiamare alla mente il mondo iper-connesso della contemporaneità:
Il problema di “produrre” non c’è più, […] i “prodotti da consumare” si spostano automaticamente lungo i canali di una specie di rete sotterranea di super-posta pneumatica, interrogata automaticamente da tastiere portatili comunicanti via radio con i calcolatori dei super-magazzini di raccolta. […] Così siamo diventati tutti artisti artigiani, provvisti di super-strumenti per fare da soli quello che ci pare, e siamo anche artisti-nomadi […] perché possediamo questa super-possibilità di comunicare che ci permette sempre di sapere tutto (di tutto e di tutti) e ci permette di far sapere (a tutti) tutto di noi […]. Siamo arrivati ad uno stadio nel quale siamo sempre noi i rappresentanti di noi stessi; […] al punto che non ci sono più poteri ma ci sono flussi vaganti di volontà e di passioni pubbliche […] come assestamenti o moti molecolari di liquidi o gas […].
Molti progetti di architettura radicale che si sono succeduti dagli anni ’50 – dalla città galleggiante di Kiyonori Kikutake a quella a forma di imbuto di Walter Jonas, dalla città sotterranea di Paul Laszlo a quelle aeree e spaziali di Paul Maymont e Yona Friedman –, hanno immaginato il futuro a partire dalla forma di una città. Nella visione di Sottsass, al contrario, il collasso della civiltà urbanistica basata sul lavoro e sulla produzione si è già consumato, e con l’avvento di una nuova civiltà del tempo libero sembra essersi esaurita ogni spinta utopistica. Per il «figlio di un’era ansiosa di futuro», come si definisce l’autore, non rimane alcuna proposta da offrire come modello alla società, né alcuna architettura da disegnare, ma solo «la possibilità di immaginare architetture disegnate da altri».
Gli edifici del futuro, nelle illustrazioni che accompagnano il testo, spiccano come residui isolati tra vasti paesaggi rocciosi e desertici, ai margini di foreste equatoriali o lungo impetuosi corsi d’acqua. Concepiti come monadi chiamate templi o stadi, sono destinati essenzialmente allo svago, e in particolare all’ascolto della musica, all’osservazione della natura e all’arricchimento interiore. La struttura più complessa appartiene a un tempio per danze erotiche, composto da una serie di padiglioni che ricordano l’analogo progetto dell’Oikema disegnato a fine ‘700 da Claude-Nicolas Ledoux. L’unica strada, una tortuosa strada panoramica simile a un drago che attraversa un fiume nella giungla, è invece paragonata a «una Muraglia Cinese inerme, fragile e inutile», con un richiamo ai viaggi di Sottsass in Oriente, ma anche alle origini asiatiche dell’artista che ha tradotto su carta le sue fantasie.
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