10/04/20

Non sapere mai la verità. «One night» di Yoshiharu Tsuge


Una delle operazioni più meritevoli che interessano il mercato fumettistico italiano contemporaneo è la riscoperta di opere che in passato, per svariati motivi, non hanno ricevuto l’attenzione che meritavano. Nel caso del manga, questo fenomeno ha portato alla pubblicazione dell’intera (o di buona parte della) produzione di autori di genere – come ad esempio Kazuo Umezu e Junji Ito, due maestri dell’horror fino a poco tempo fa inediti in Italia –, ma anche alla diffusione di fumettisti dall’identità autoriale più difficilmente inquadrabile in categorie specifiche, salvo per la comune appartenenza a quella corrente rivoluzionaria che risponde al nome di gekiga (letteralmente “immagini drammatiche”, ma con una ricercata omofonia con geki, ovvero “violento, d’azione”).

A partire dalla fine degli anni ’50, gli autori che si riconoscevano in questa corrente erano accomunati dall’insofferenza nei confronti delle convenzioni troppo limitanti del manga popolare per ragazzi, dalla consapevolezza che il linguaggio del fumetto possedeva potenzialità espressive ancora largamente inesplorate e dalla volontà di rivolgersi a un pubblico più adulto, sperimentando e approfondendo tematiche considerate fino a quel momento off limits. Gli autori di gekiga sfruttarono anche canali di circolazione alternativi rispetto ai quotidiani e alle riviste mensili, in particolare i cosiddetti “negozi di libri a prestito” (kashihonten), un’istituzione simile alla biblioteca, ma dall’atmosfera più informale, che nell’immediato dopoguerra si diffuse in diverse città. Nella storia del fumetto giapponese, di conseguenza, ci si riferisce spesso al gekiga come a una tradizione alternativa rispetto al manga convenzionale, e una metafora ricorrente – come ha ricordato Juan Scassa – è quella dei due picchi: sulla cima del manga commerciale svetta il “dio del manga” Osamu Tezuka, mentre dall’altra parte, sulla cima del manga alternativo, il maestro riconosciuto è Yoshiharu Tsuge.


Autore riservato ma oggetto di un vero e proprio culto da parte di estimatori di spicco, compresi i due fumettisti che in Italia sono i maggiori responsabili della sua valorizzazione (Igort e Vincenzo Filosa), Tsuge ha in effetti contribuito non poco ad alimentare in prima persona il mito di un artista irraggiungibile, adottando uno stile di vita isolato che ha anche eletto a oggetto di narrazione in diverse sue opere, trascorrendo lunghi periodi di inattività e rifiutando fino a pochi anni fa quasi tutte le offerte di pubblicazione provenienti dall’estero. Chiunque abbia letto le sue opere non può che provare stupore nell’apprendere che Tsuge era convinto che esse fossero sostanzialmente intraducibili, e che per questo non meritassero di essere conosciute al di fuori del Giappone, ma anche una grande ammirazione per la sua modestia, così lontana dall’esibizionismo di non pochi artisti mediocri.

Per quanto mi riguarda, dopo aver letto di «Tsuge l’invisibile», «pioniere di un certo tipo di storie, raccontate con poesia e durezza», sulle pagine dei Quaderni giapponesi di Igort, ho seguito le varie uscite italiane e mi sono immerso nelle sue opere “al contrario”, ovvero a partire dal grande capolavoro della maturità L’uomo senza talento (1986), per poi approdare alle altre storie di ispirazione autobiografica pubblicate tra gli anni ’70 e ’80 (Il giovane Yoshio, La stanza silenziosa) e alle magnifiche storie visionarie apparse sulla rivista Garo tra il 1965 e il 1970 (Nejishiki, Fiori rossi), considerate in genere il punto di svolta della sua carriera. Per la loro singolare bellezza, nonostante conoscessi superficialmente altri autori del gekiga come Yoshihiro Tatsumi e Tadao Tsuge (fratello di Yoshiharu), tutte queste opere mi sembravano talmente uniche da sottrarsi in modo spontaneo a qualsiasi potenziale confronto. Un racconto straniante come Nejishiki (1968), storia di un ragazzo morso da una medusa che vaga disperato in cerca di soccorso in un deserto villaggio di pescatori, non poteva che apparirmi come una visione originatasi dal nulla, irripetibile e aliena da tutto il resto, ma anche un’altra storia grottesca e allucinata come Salamandra (1967), benché fosse nota l’ispirazione letteraria tratta da un racconto di Masuji Ibuse, somigliava all’esito di quell’alchimia imponderabile che unisce la maestria all’ispirazione, e a cui spesso ci si riferisce col termine “genio”.

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