Da più di trent’anni il successo internazionale ha imposto Murakami Haruki all’attenzione di tutti in quanto fenomeno, ovvero per la sua eccezionalità. Murakami è stato riconosciuto come l’alfiere di una letteratura cosmopolita capace di trascendere i confini dei singoli paesi grazie a un immaginario globale che mescola riferimenti alla cultura pop, alla musica e allo sport, ma al tempo stesso è stato visto come una pecora nera nell’alveo della grande tradizione giapponese. «Murakami scrive in giapponese, ma la sua scrittura non è davvero giapponese» ha osservato ad esempio il premio Nobel Ōe Kenzaburō, sottolineando come il suo stile non sia ascrivibile ad alcuna tradizione letteraria.
Le influenze di Murakami sono del resto inequivocabilmente occidentali, così come molti aspetti della sua biografia puntano all’Europa e agli Stati Uniti – dal jazz-bar che aprì a Tokyo poco più che ventenne con lo Stregatto carrolliano dipinto sull’insegna ai viaggi in Grecia e in Italia, fino agli anni di ricerca e insegnamento universitario a Princeton e a Santa Ana. Volendo riprendere l’immagine dello scrittore-maratoneta che emerge in uno dei suoi pochi volumi autobiografici, L’arte di correre (2007), è forte la tentazione di leggere la sua carriera come un continuo esercizio di allontanamento dal “cuore” della cultura giapponese, alla ricerca della propria identità in un contesto più ampio e contemporaneo.
Murakami assomiglia in questo senso a molti protagonisti giovani o adolescenti delle sue storie, nelle quali una situazione ricorrente consiste proprio nell’accesso a una dimensione parallela. In The Fantastic in Modern Japanese Literature (1996), Susan J. Napier nota infatti come i suoi personaggi diano l’impressione di essere sempre in fuga dalla propria storia e dalle proprie radici, sulla base di un’attitudine che sintetizza ricorrendo a una citazione dal romanzo Nel segno della pecora (1982): «E da quel momento in poi io non avevo più una città che fosse anche la mia casa, nessun tetto cui fare ritorno. Che sollievo! Nessuno a volermi, nessuno a pretendere qualcosa da me». Dal canto suo, durante una conversazione con lo psicoanalista junghiano Kawai Hayao, Murakami osservò che i protagonisti dei suoi romanzi sono perlopiù soli, non ci sono bambini e solo raramente appare qualche moglie. Per molti giovani personaggi murakamiani, in effetti, la ricerca della libertà individuale e l’esperienza dell’alienazione rappresentano due aspetti inscindibili.
In un’altra opera saggistica, Il mestiere dello scrittore (2015), Murakami ricorda che agli inizi della carriera qualcuno gli fece notare che nei suoi libri non c’erano mai persone cattive, e cercando di spiegarne il motivo traccia un’opposizione significativa tra quello che definisce un mondo armonioso e una realtà violenta. «A quelle parole mi sono reso conto che in effetti era così, e da allora in poi mi sono sforzato di introdurre nei miei romanzi dei personaggi negativi. Però non ci sono riuscito molto bene. A quel tempo ciò che mi interessava, che mi premeva, più che dare un ampio movimento alla storia, era costruire un mondo fatto alla mia maniera. Un mondo armonioso, sicuro e stabile, insomma un rifugio per resistere alla violenza della realtà.»
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