Se dal punto di vista dei superstiti, come notò Tsuboi Sunao, le macabre statue che nei vecchi allestimenti raffiguravano le vittime non riflettevano in alcun modo la realtà del disastro, dando piuttosto l’impressione di una serie di pupazzi, il fattore essenziale del complesso equilibrio ottenuto tra Storia e memoria, distacco e partecipazione, risiede ora in una più accurata valorizzazione dei documenti. Da un lato, nessuna riproduzione artificiale può eguagliare la visione di una fotografia d’epoca, per non parlare degli oggetti rinvenuti e dei resti bruciati degli abiti; dall’altro, è importante che queste testimonianze trovino nelle sale del museo un contesto che sia il più adeguato possibile alla trasmissione di un’esperienza non soltanto istruttiva e coinvolgente, ma formativa nel senso più profondo del termine.
La storiografia è solita distinguere i documenti dai monumenti, ovvero le testimonianze involontarie da quelle lasciate intenzionalmente ai posteri. Nel caso di Hiroshima, però, il più eccezionale documento storico, ovvero il grande edificio rimasto intatto fra le macerie in prossimità dell’ipocentro dell’esplosione, è diventato il suo monumento più rappresentativo, continuamente restaurato per mantenere l’aspetto che aveva quel giorno. Non si è trattato di una questione priva di controversie, ed è comprensibile che una parte della popolazione preferisse demolire quelle rovine nell’illusione di poter rimuovere con esse il legame con un passato traumatico e doloroso, ma alla fine ha prevalso la volontà di trasformarle in un simbolo che oggi, in una città completamente ricostruita, sembra proteggere ed essere protetto da un’invisibile soglia spazio-temporale. Come il più sacro dei monumenti, il Memoriale della Pace non si può visitare, ma soltanto osservare da lontano oltre una recinzione, ed è un documento esemplare della possibilità di elaborare in senso costruttivo anche l’esperienza più terribile, riassunta in un’immagine che parla al contempo di rovina e resistenza, morte e rinascita.
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