08/04/21

«Minari» di Lee Isaac Chung. Il linguaggio ritrovato


Il linguaggio non è della lingua, ma del cuore.
La lingua è solo lo strumento con il quale parliamo.
(Paracelso)

Con ben sei candidature agli Oscar 2021 (miglior film, regia e sceneggiatura, miglior attore protagonista, miglior attrice non protagonista, migliore colonna sonora), Minari di Lee Isaac Chung si conferma uno dei film più interessanti e chiacchierati di questa travagliata stagione di cinema, e non solo per motivi inerenti all’opera in sé e per sé.

Pochi mesi fa, quando la pellicola è stata presentata ai Golden Globe, la scelta di concorrere per il premio di miglior film in lingua straniera (che si sarebbe poi aggiudicato), invece che per quello di miglior film, ha generato una controversia sulle regole di partecipazione. Pur essendo una produzione americana diretta da un regista statunitense, nato a Denver nel 1978 da genitori di origini coreane, e che in Minari rivisita per l’appunto un periodo della propria infanzia trascorsa in una fattoria dell’Arkansas, la prevalenza di dialoghi sottotitolati ha impedito di fatto al film di candidarsi al premio più ambito, poiché il criterio linguistico che richiede più del 50% dei dialoghi in lingua inglese, per la Hollywood Foreign Press Association, risulta dirimente rispetto a qualsiasi altra considerazione.

Lee Isaac Chung ha preferito smorzare i toni della polemica, ma ha ammesso di comprendere la delusione che la notizia ha suscitato, specialmente da parte di persone asioamericane abituate a convivere con un senso di estraneità e a essere ritenute straniere per via del colore della pelle e delle origini famigliari, pur sentendosi a tutti gli effetti americane. A suo parere, comunque, il caso è indicativo non tanto di una discriminazione, quanto di dinamiche consolidatesi nel tempo a causa dell’esiguo numero di film americani girati in lingue diverse dall’inglese, per consuetudini produttive e di mercato che non rispecchiano la realtà ben più eterogenea del paese (dove le statistiche dimostrano che sono più del 20% le persone che a casa parlano un’altra lingua). «Non ci sono molti film americani in lingue che non siano l’inglese. Credo sia il motivo per cui queste categorie si sono formate. E non dipende solo dalla Hollywood Foreign Press. È l’intera cultura. Sono i registi, sono le case di produzione. Sono le persone che guardano i film, le scelte che fanno e i tipi di film che guardano. Dobbiamo continuare a mostrare che le categorie presenti non sono sempre adatte a rappresentare la realtà di ciò che siamo come esseri umani».


Leggendo queste dichiarazioni, viene spontaneo chiedersi se l’obiettivo di una maggiore inclusione delle minoranze, cui il cinema americano si sta dimostrando negli ultimi anni particolarmente sensibile, possa essere perseguito in maniera davvero efficace mediante l’istituzione di regole e categorie più definite, come la previsione di quote vincolanti a partire dagli Oscar del 2024, o se al contrario proprio la tendenza alla categorizzazione, come suggeriscono le parole di Lee Isaac Chung, rischierebbe di ostacolare lo sviluppo di una mentalità realmente inclusiva, svincolata da etichette identitarie e ispirata al pensiero di una comune umanità al di là di qualsiasi differenza. In questo senso, l’auspicio di Chung ricorda il discorso tenuto lo scorso anno da Bong Joon-ho alla cerimonia dei Golden Globe, nel quale l’invito a «superare la barriera dei sottotitoli» culminava nel riconoscimento di un orizzonte condiviso: «Credo che usiamo un solo linguaggio: il cinema». Poche settimane dopo, il suo Parasite sarebbe diventato il primo titolo non in lingua inglese nella storia degli Oscar a vincere il premio per il miglior film, e quest’anno Minari potrebbe bissarne il successo con una storia incentrata proprio sul problema dell’integrazione, che in modo complesso riflette sul confronto tra culture e interroga il senso dell’identità e dei legami interpersonali.

Trasferitisi dalla California in una sperduta località rurale dell’Arkansas, i coniugi Yi affrontano assieme ai loro due figli i disagi di una nuova vita da ricostruire dal nulla e senza punti di riferimento. Per il padre Jacob, che vuole avviare una coltivazione di ortaggi coreani, si tratta dell’occasione tanto attesa per riscattare una vita alienante inseguendo il sogno dell’indipendenza e del benessere, nonostante le evidenti difficoltà. La moglie Monica non condivide però il suo entusiasmo, ed è anzi preoccupata per gli investimenti del marito, che prima del trasloco le aveva mentito sulle sue reali intenzioni. «This isn’t what you promised» pronuncia all’inizio del film, scioccata, non appena scopre che la casa altro non è che un prefabbricato sprovvisto di acqua e distante più di un’ora d’auto dal più vicino centro abitato. In una sorta di compromesso per il quieto vivere, Jacob consente alla moglie di chiamare dalla Corea del Sud l’anziana madre, che a causa dell’enorme distanza culturale e del carattere sopra le righe i nipoti stentano a riconoscere come una vera nonna, e le propone di iniziare a frequentare la comunità cristiana locale, di cui fa parte anche l’eccentrico Paul (Will Patton), veterano americano tornato dalla guerra in Corea che si offre di aiutarli con le coltivazioni, mosso da una fervente passione religiosa.



Chung rappresenta con grande empatia le contraddizioni interiori e le emozioni represse che animano i personaggi, a cominciare dai due coniugi, interpretati in modo superlativo da Han Ye-ri e Steven Yeun (già notevole in Burning di Lee Chang-dong, e primo attore asioamericano a ottenere una candidatura all’Oscar per il miglior attore). Se Monica si sforza di contenere la rabbia e l’impulso di tornare coi figli in California, covando il dubbio che il marito abbia anteposto le proprie aspirazioni al bene della famiglia, Jacob patisce un conflitto che lo stesso Yeun ha paragonato alla biblica lotta di Giacobbe con l’angelo: di fronte a una realtà che fatica a piegare ai suoi desideri, il suo sogno imprenditoriale assume presto i caratteri dell’ossessione, ma è alimentato anche dal senso del dovere che l’uomo avverte su di sé in quanto pater familias, convinto che i figli debbano vederlo avere successo in qualcosa per avere stima di lui. All’etica individualistica del padre, interessato soprattutto a una realizzazione da ottenere attraverso l’indipendenza, nonostante i rischi della precarietà, si contrappone così la visione materna, maggiormente orientata alla condivisione di affetti stabili, in un dissidio che si ripercuote anche sull’educazione dei figli.

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