Memoria di Apichatpong Weerasethakul è sicuramente uno dei film più attesi di prossima uscita, anche a prescindere dal tempo trascorso dal suo ultimo lungometraggio distribuito nelle sale, Cemetery of Splendour (2015). Oltre a essere il suo primo film in lingua inglese, girato in Colombia e non più nella Thailandia rurale delle opere precedenti, Memoria nasce dalla collaborazione di Weerasethakul con Tilda Swinton, amica di lunga data con cui da molti anni il regista sognava di lavorare, e stando alle poche informazioni diffuse sulla trama – che parlano tra le altre cose di una donna scozzese in viaggio, in preda a strane allucinazioni uditive – si annuncia come un nuovo importante tassello della sua già ricchissima filmografia. Nel frattempo, per chi è interessato a scoprire la sua opera o approfondirne la conoscenza, un ottimo punto di partenza è il film che poco più di dieci anni fa l’ha portato al successo internazionale con la Palma d’oro vinta al Festival di Cannes, Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), disponibile sulla piattaforma RaiPlay.
Un’indimenticabile scena notturna di Boonmee vede la famiglia riunita a tavola in una veranda circondata dalla vegetazione. Boonmee sta cenando assieme alla cognata Jen e al nipote Tong, quando all’improvviso compare su una sedia vuota il fantasma di una donna. I famigliari rimangono qualche secondo in silenzio, più attoniti che impauriti, ma non appena riconoscono Huay, la moglie di Boonmee morta quasi vent’anni prima, cominciano a conversare insieme a lei con la più assoluta naturalezza, scambiandosi confidenze e ricordi. Boonmee le confessa che si domanda sempre dove si trovi e se stia bene, e immaginando il lungo viaggio che deve aver fatto per raggiungerli le offre un bicchiere d’acqua, prima di chiederle, dal momento che è molto malato, se è venuta a prenderlo.
Nonostante questa intuizione, l’apparizione del fantasma incrina solo in minima parte il corso degli eventi ordinari. Non suscita paura, non spinge le persone ad allontanarsi (lo fa solo il giovane Tong, che ritorna subito al suo posto), e il suo verificarsi, anzi, si direbbe già implicito nell’immagine di una tavola occupata solo per metà, preceduta da diverse inquadrature nelle quali la composizione privilegia invece la simmetria e la centralità delle figure umane. Difficilmente lo spettatore può rendersi conto di questa transizione, ma nel momento in cui l’altra metà della tavola verrà occupata da fantasmi sarà portato a sentire che il loro arrivo era in un certo senso previsto o addirittura evocato, e in ogni caso non rappresenta un fatto sinistro o eccezionale.
Come per un fantasma, la prima impressione di fronte al cinema di Apichatpong Weerasethakul è quella di trovarsi al cospetto di opere che sfidano radicalmente le convenzioni cinematografiche e narrative, a cominciare dal costante richiamo alla natura e al folklore dell’Isan, la regione della Thailandia più povera ed estranea all’immaginario del mondo globalizzato, e da alcune soluzioni registiche sperimentali, come l’estrema riduzione dei movimenti della macchina da presa, la dilatazione della durata delle singole inquadrature, la comparsa dei titoli di testa dopo tre quarti d’ora in Blissfully Yours (2002) e la netta scissione in due parti di Tropical Malady (2004) e Syndromes and a Century (2006). Esattamente come le prime reazioni di Boonmee e dei famigliari di fronte ai fantasmi che appaiono a tavola, però, questa impressione di stranezza è un effetto istintivo che deriva soprattutto dallo sguardo dello spettatore, e in particolare è proprio di uno sguardo che non ha ancora sviluppato (o forse sarebbe meglio dire recuperato) l’abitudine alla visione.
Superando questa prospettiva anti-convenzionale, che spesso rischia di restituire l’idea di una serie di documenti etnografici o di opere riservate ai più sofisticati cinefili, ci si può accorgere che il cinema di Weerasethakul, in realtà, è quanto di meno settoriale e cerebrale possa esistere. Non solo non impone alcun tipo di lettura razionale o sforzo interpretativo, lasciando anzi la massima libertà di fruizione, ma coinvolge a un livello ben più elementare sul piano delle sensazioni. L’esperienza primitiva della visione, semmai, invita lo spettatore a dimenticare tutto ciò che conosce, assorto in uno stato in cui i sensi affinano le loro facoltà ricettive in modi imprevisti.
Durante una conversazione con Béla Tarr alla Sarajevo Film Academy (in questo video, al minuto 32), Weerasethakul ha parlato della coincidenza tra la durata media di un film e i novanta minuti di un ciclo di sonno, a suo parere indicativa del fatto che il cinema si sia sviluppato come un surrogato dell’esperienza onirica, rispondendo per l’uomo al bisogno di un costante e rigenerante “ritorno alla caverna”. In Boonmee la famiglia discende in una grotta ancestrale, con rocce costellate di scintille che ricordano la volta celeste, e un’altra discesa nelle profondità della terra si svolge in Tropical Malady, ma più in generale, nei film di Weerasethakul, il ritorno alle origini è evocato dall’impressionante scenario della foresta tropicale, e prima ancora dalla sua polifonia avvolgente di rumori che precedono la comparsa delle immagini sullo schermo, suscitando la sensazione di trovarsi circondati da ogni parte da una natura selvaggia e incommensurabile. Come osservò Maria Zambrano in Il sogno creatore, «nell’accedere al sogno l’uomo cessa per quanto gli è possibile di essere persona, per ritornare semplice creatura».
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