La passeggiata lungo il canale fiancheggia le pendici dei monti orientali di Kyōto, dai quali prende il nome la storica area di Higashiyama, e conduce in prossimità di alcuni templi e santuari tra i più suggestivi dell’antica capitale dell’Impero. Inaugurata alla fine dell’Ottocento, percorsa quotidianamente nei decenni successivi dai pensatori della prestigiosa Scuola di Kyōto, è oggi nota in loro memoria come il Sentiero della Filosofia (Tetsugaku no michi) e frequentata soprattutto all’inizio di aprile, sotto l’incanto rosa dei ciliegi in fiore. Durante la mia visita i passanti si contano sulla punta delle dita, ma il silenzio dei quartieri assonnati in cui i rumori del traffico urbano si mescolano ai canti degli uccelli, in questa tarda mattina di fine dicembre, pare invitare alla scoperta di una bellezza meno appariscente, e forse impalpabile. Sceso dal tram, ho seguito per un po’ il sentiero deserto prima di addentrarmi nei vicoli che salgono verso il tempio buddhista Hōnen-in, uno dei tesori meglio conservati e nascosti della città.
La prima impressione può essere paragonata a un incantesimo, o più precisamente al passaggio di una soglia invisibile: sui larghi gradini di pietra, le strade soleggiate che ho visto fino a pochi secondi fa sono già un ricordo remoto, mentre l’ombra dei pini mi accompagna tra le lapidi di un piccolo cimitero dove si respira l’aria fresca e profonda della montagna. Grovigli di radici scoperte invadono il sentiero, come il verde dei muschi lambisce i bordi delle pietre. «Entro la cinta del tempio il silenzio era davvero assoluto», osserva il protagonista di una delle ultime opere di Tanizaki Jun’ichirō (1886-1965), Diario di un vecchio pazzo (1961-62), «stupito al pensiero che ci trovavamo in una grande città», a pochi passi dalle rotaie del tram municipale e dal canale costeggiato dai ciliegi. Agli occhi dell’anziano visitatore in cerca di un terreno per la sua tomba, la quiete e la bellezza del luogo sono incomparabili al disordine della Tōkyō in cui risiede, divenuta una città estranea ai ricordi della sua fanciullezza. Riflessioni che ricalcano quelle che Tanizaki cominciò a sviluppare nei suoi saggi attorno al 1923, anno in cui si trasferì nel Kansai dopo che il grande terremoto del Kantō si era abbattuto sulla sua casa a Yokohama, come un altro terremoto, nel 1894, aveva distrutto la casa della sua infanzia a Nihonbashi, in un quartiere di artigiani e mercanti che nella città bassa (shitamachi) avrebbe conservato ancora per poco il fascino della vita preindustriale. Pur essendo nato a Tōkyō, per questo, prossimo alla morte è la «nostalgia di Kyōto, di quella sua caratteristica atmosfera che ricorda la Tōkyō di un tempo», a fargli scegliere il riposo di un piccolo tempio che una magia sembra aver sottratto all’impatto travolgente degli anni.
Nelle memorie d’infanzia di Tanizaki, le case e i templi sono il teatro dei ricordi più antichi, e non si tratta certo di una casualità. «L’infanzia giapponese trascorre soprattutto nei cortili dei templi» notò un osservatore attento come Lafcadio Hearn (1850-1904), che più volte evocò il fascino delle festività e dei luoghi consacrati a terreno di gioco per i bambini. Al di là del mondo assolato dei giochi e delle celebrazioni collettive, del resto, il connubio tra infanzia e templi si sostanzia in una precoce e intima esperienza dell’ombra. Tanizaki ricorda in particolare un piccolo santuario in cima a una collina, che assieme ad altri bambini si divertiva a scalare di corsa, e in una cappella la terrificante figura del Re Enma, il giudice infernale cui la nonna si riferiva come a uno spauracchio. Conteso da una strana attrazione e dalla paura di essere divorato, come si narrava fosse successo a un bambino disobbediente, osserva che ogniqualvolta si trovava a giocare in quei cortili, irresistibile lo prendeva la voglia di recarsi al cospetto del Re degli inferi e interrogare i suoi occhi infiammati di rabbia.
Il gioco e la morte, talmente prossimi da confondersi, attraggono l’infanzia e la memoria nel regno dell’oblio, come accade anche in una fulminea esperienza iniziatica descritta nell’Autobiografia di un monaco zen di Deshimaru Taïsen (1914-1982). Invitato nel tempio buddhista Mampuku-ji di Kyōto, Deshimaru bambino scarabocchia con un pennello un prezioso dipinto, e spaventato dagli sguardi del nonno e del custode scappa fino a inoltrarsi nel cimitero, dove ricorda di essersi nascosto proprio dietro la stele di legno dei suoi antenati, «tutta ricoperta di patina e tarlata», e di aver provato una tristezza indicibile, legata alla consapevolezza della solitudine. «La solitudine non è sulla montagna, ma nelle strade», conclude Deshimaru citando un filosofo della scuola di Kyōto, Miki Kiyoshi (1897-1945), e proiettando così sul ricordo il sentimento dell’impermanenza di tutte le cose che anni dopo l’avrebbe spinto a voler prendere gli ordini. Nel cimitero del tempio il bambino ha intuito forse per la prima volta la fragilità della vita, ma per la sua tristezza la tomba logorata è diventata un prezioso rifugio; leggendo il brano, credo sia naturale immaginare le sue mani stringere il legno consunto, anzi, abbracciarlo.
La tomba è contrassegnata da una pietra di forma irregolare, lasciata allo stato grezzo. Tanizaki vi riposa assieme alla moglie Matsuko sotto un ciliegio piangente piantato da lui stesso, accanto al luogo dove sono sepolti la sorella minore di quest’ultima, Shigeko, e suo marito Akira. Il carattere jaku sulla pietra, inciso secondo la sua grafia, significa letteralmente “tranquillità”, ma corrisponde anche a sabi, uno dei termini più importanti dell’estetica giapponese. Come spiega D. T. Suzuki, «jaku è sabi, ma sabi contiene un significato molto più vasto dell’idea di “tranquillità”. Il suo equivalente sanscrito, śānta o śānti, significa “tranquillità”, “pace”, “serenità”, mentre jaku è stato usato spesso nella letteratura buddhista come sinonimo di “morte” o “nirvāna”». Nella cerimonia del tè implica inoltre i concetti di “povertà”, “semplificazione”, “solitudine”, e in questo senso si ricollega a una visione estetica nota come wabi-sabi, fondata sul riconoscimento della transitorietà come forma di bellezza, dove wabi identifica uno stato soggettivo o uno stile di vita, mentre sabi ha una valenza più concreta, legata all’effetto del tempo su un oggetto o su un luogo. È sabi la patina antica che l’uso prolungato conferisce a un utensile, l’assenza di artifici e ostentazione, la semplicità di un ambiente rustico e l’imperfezione di un’opera incompiuta o abbandonata.
Bashō (1644-1694) si riferiva al sabi quando scriveva che il «Padiglione ove cadono i cachi» (Rakushisha) di Kyōto, casa di campagna dell’allievo Kyorai, in procinto di cadere in rovina «è più commovente e più incantevole di quanto lo poté essere al tempo in cui era perfetto». In un’epoca più antica, come ad esempio nelle poesie di Saigyō (1118-1190), sabi era la malinconia lirica di scene desolate, ma col passare dei secoli il termine si sarebbe arricchito di molte altre risonanze. Donald Richie ne annotò una splendida lettura etimologica, adatta anche a illustrare questo fenomeno di germinazione semantica: «il fiorire del tempo». Descrivendo un antico orologio a incenso cinese (hsiang yin, letteralmente “sigillo di profumo”) in cui l’incenso che si consuma, bruciando, assume la forma di un sigillo che rappresenta un fiore, Byung-Chul Han ha evocato la concezione di un tempo avvolgente, estranea alle consuetudini europee: «Il tempo che profuma non scorre né passa. E nulla si svuota. Il profumo dell’incenso riempie piuttosto lo spazio, anzi spazializza il tempo, conferendogli in tal modo la parvenza di una durata».
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