23/06/22

Apichatpong Weerasethakul. Sintonie dall’altrove


Joseph ricorda che prima di nascere fluttuava nello spazio attorno alla Terra assieme ad altre persone, lo sguardo rivolto in basso alla superficie del pianeta, in cerca dei suoi futuri genitori. A questa prodigiosa memoria prenatale, negli appunti che lui stesso ha revisionato, si accompagnano ricordi particolareggiati dei primi giorni di vita, cenni su un’adolescenza segnata dal rifiuto di Dio e dalla difficoltà di calmare incessanti flussi di idee, e infine considerazioni sulla riscoperta della fede a seguito di esperienze che gli hanno consentito di maturare una nuova consapevolezza sul proprio passato. Fin da bambino, senza saperlo, Joseph ha cercato nella pratica della meditazione un mezzo per sottrarsi ai vincoli della propria individualità, e in determinate circostanze è arrivato a percepire con straordinaria chiarezza la trama di relazioni che congiunge ogni cosa. All’apice di questo processo, per un breve periodo, è stato in grado di ascoltare ogni conversazione delle persone che aveva attorno, visualizzare il corso delle loro vite fino a quel giorno e interrogare le ragioni che si celano dietro a qualsiasi evento, come una radio capace di sintonizzarsi sulle più impensabili frequenze del reale.

Prima di soffermarmi sul libro da cui è tratta questa storia (Memoria, Fireflies Press 2021), e poi sull’omonimo film di Apichatpong Weerasethakul di cui il volume documenta l’origine, vorrei accostare al ricordo di Joseph quello di un altro film che conserva una traccia altrettanto preziosa di memoria prenatale. Rileggendo la storia di Joseph dopo aver visto Memoria ci ho ripensato immediatamente, e anche se si tratta di due film molto diversi credo che non manchino alcune affinità profonde. In un brevissimo passaggio di Rewind (2019), documentario di Sasha Joseph Neulinger che ricostruisce la terribile storia degli abusi subiti dal regista durante l’infanzia, ascoltiamo sua madre rievocare uno strano discorso che il figlio le aveva fatto quand’era molto piccolo: «Mamma, ti ho scelto come madre perché sei la persona che può aiutarmi a diventare ciò che dovrei essere. E ho dovuto aspettarti molto a lungo, perché non eri pronta». Una digressione lasciata in sospeso che di primo acchito sembrerebbe superflua, in un film che i ricordi famigliari e i filmati tratti dalla collezione di videocassette del padre scandiscono con grande rigore cronologico, ma che al termine della visione, meditando sul suo significato, suggerisce di riconsiderare l’intera storia alla luce di un altro importante dialogo con la madre, notevole anche per le circostanze altamente simboliche in cui si è svolto (la donna ha infatti portato il figlio con sé fuori da casa, nel giardino, all’ombra di un albero). In una vicenda segnata dai traumi trasmessi di generazione in generazione da alcuni membri del ramo paterno della famiglia, si direbbe che la presenza materna ha avuto un ruolo davvero determinante per l’assunzione di una nuova prospettiva di crescita al di là dei pesanti condizionamenti patiti, come in termini enigmatici prefiguravano le parole del piccolo Sasha su un destino da trovare con l’aiuto di una madre tanto attesa.



Pur essendo un’opera di finzione per molti versi incomparabile con Rewind, anche Memoria è un film profondamente personale (un attributo con cui Apichatpong allude spesso alla sensibilità soggettiva della sua ricerca artistica, comunque animata da un respiro ben più vasto di qualsiasi riferimento autobiografico), e soprattutto nasce da un’accurata documentazione, distillata in modo quasi impercettibile nella pellicola che al Festival di Cannes ha ottenuto il Premio della giuria a undici anni di distanza dalla Palma d’oro di Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), film che lo impose all’attenzione mondiale come uno tra i più originali registi contemporanei. Se l’ispirazione essenziale di Boonmee, poi rivisitata liberamente, si fondava sul libro di un monaco buddhista vissuto in un monastero vicino a Khon Kaen, dove Apichatpong ha trascorso la prima parte della vita tra le suggestioni della Thailandia più rurale, la trama di Memoria è il frutto di un processo compositivo più articolato e inconsueto, che il volume Fireflies Press restituisce nella sua complessa eterogeneità fra taccuini di appunti di viaggio, ricerche scientifiche, voci di enciclopedie, frammenti di dialoghi e fotografie sui quali lo sguardo si appunta e vaga, come sulla superficie di una mappa dalle coordinate sfuggenti.

Da un lato, si tratta del primo lungometraggio girato dal regista in inglese e spagnolo e al di fuori del suo Paese natale, in una Colombia dove la materia per sviluppare la sceneggiatura gli è stata fornita anzitutto dalla scoperta di luoghi sconosciuti e da una serie di incontri fortuiti, come quello con Joseph. Dall’altro, considerando che Apichatpong ha sempre preferito lavorare con un cast di attori locali non professionisti, un contributo determinante per la genesi del film è senza dubbio da attribuire alla presenza di Tilda Swinton, amica di lunga data con cui da molti anni il regista sognava di collaborare a un progetto tanto inedito per i suoi standard quanto rigenerante. «Sentivo che avevo bisogno di trovare un posto che fosse straniero per entrambi,» ha dichiarato in un’intervista, «un posto che non sentissimo del tutto sicuro e familiare, così che potessimo aprire i nostri sensi a nuove percezioni».

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