Per raccontare la storia di Raoul Louper, collezionista di sabbie ed esploratore, lo scrittore austriaco Raoul Schrott ha scelto un’interpretazione anomala del genere novellistico, che conferma e approfondisce l’analogia tracciata da Calvino. Originariamente pubblicato in lingua tedesca nel 2000, Il deserto di Lop si compone di 101 brevissimi capitoli in prosa, che nella raffinata edizione italiana (La Grande Illusion 2022, progetto grafico di Maurizio Minoggio), allineati a sinistra senza giustificazione tipografica, possono essere scambiati per componimenti in versi, o meglio ancora per appunti tratti da un diario di viaggio. Le parole con cui Federico Italiano ha recentemente introdotto Schrott sulla rivista Poesia (Crocetti, 11, 2022) ne descrivono bene la fisionomia, pur riferendosi nello specifico alla sua opera poetica: «Schrott presenta le sue poesie come i pezzi di un immenso mosaico bizantino, tesseræ apparentemente separate, se prese singolarmente, disgiunte, estranee le une alle altre, ma in grado di darci una visione unica e comprensiva, se osservate nel loro insieme e alla giusta distanza». A questi frammenti numerati, nel Deserto di Lop, fanno poi seguito un apparato di carte geografiche, utili per rintracciare le molte località citate nel libro, e una nota critica della traduttrice Giulia A. Disanto, studiosa di letteratura tedesca che per la stessa casa editrice ha curato le edizioni dei testi di Kurt Schwitters. Proprio uno di questi testi, Augusta Bolte, ha inaugurato nel 2018 la collana “Situazioni” che accoglie ora Il deserto di Lop, titolo perfettamente in linea con un progetto basato sul recupero di opere brevi ed eccentriche, proposte in traduzione e dalla forte impronta meta-discorsiva.
Il quarantatreenne Raoul Louper ha lasciato la Francia per trasferirsi in un villaggio vicino ad Alessandria d’Egitto, al piano superiore di una casa che si affaccia sul mare. Una volta a settimana va al Cairo dall’amico Török, un loquace professore ungherese che condivide la sua passione per la sabbia, compagno di gite presso siti di interesse geologico, sposato con un’affascinante donna egiziana. Per il resto, quando non è in viaggio, Louper passa buona parte delle sue giornate a casa, dove all’interno di una cassapanca conserva in recipienti di vetro la collezione di sabbie cha ha raccolto in molti anni di esplorazioni in giro per il mondo: dai deserti africani al Sinai, dall’America del Nord al Cile, fino all’Estremo Oriente. Ma un’altra collezione ben più modesta è ospitata poco più in là sulla nicchia di una finestra, composta da tre piccoli souvenir che sono le uniche tracce rimaste di tre donne amate, figure o fantasmi la cui memoria si intreccia e sovrappone continuamente ai ricordi dei suoi itinerari. Una pigna per Francesca, con cui ha vissuto un’estate spensierata su una spiaggia nei pressi di Grosseto. Un amuleto artigianale per la giovane Arlette, conosciuta in un bar di Quimper, in Bretagna. Una pietra per Elif, incontrata in Perù ma cresciuta nel suo stesso paese natale, con la quale Raoul condivide anche il giorno del compleanno.
Tre storie d’amore molto diverse tra di loro, e che a dispetto delle affinità tematiche non devono far pensare alle sventure del collezionista di insetti del noto romanzo di Kōbō Abe, La donna di sabbia (1962), intrappolato in un villaggio tra le dune da una donna con cui comincia a convivere in una casa scavata a imbuto nel suolo, come le buche in cui i formicaleoni attirano le loro prede. Gli amori di Louper tradiscono anzi il rovescio di questa cieca possessività animalesca, sono amori fatti essenzialmente di sguardi, silenzi e reticenze, storie brevi e quasi disincarnate che nascono da coincidenze irripetibili, si consumano troppo in fretta e non resistono alla prova del tempo, benché possano convertirsi in cordiali amicizie a distanza. Passioni difficili e appena accennate, che le divergenze caratteriali acuiscono nell’intimità: «Solo un aprirsi l’uno per l’altra, per ritrovarsi racchiusi l’uno nell’altra […]. E sempre troppo fugace. Troppo lontano» (p. 82). Giulia A. Disanto osserva del resto che in francese louper «vuol dire “fallire”, “mandare a rotoli”, “sciupare occasioni”», e numerosi sono gli indizi che parlano di esperienze segnate dall’inibizione e dall’autoinganno, vissute quasi in terza persona senza mai suscitare un compiuto senso di appartenenza, alle quali fa però riscontro l’onnipresente richiamo all’orizzonte del viaggio, con le sue infinite possibilità di scoperta che si accompagnano a una benefica dissoluzione dell’io.
Il quarantatreenne Raoul Louper ha lasciato la Francia per trasferirsi in un villaggio vicino ad Alessandria d’Egitto, al piano superiore di una casa che si affaccia sul mare. Una volta a settimana va al Cairo dall’amico Török, un loquace professore ungherese che condivide la sua passione per la sabbia, compagno di gite presso siti di interesse geologico, sposato con un’affascinante donna egiziana. Per il resto, quando non è in viaggio, Louper passa buona parte delle sue giornate a casa, dove all’interno di una cassapanca conserva in recipienti di vetro la collezione di sabbie cha ha raccolto in molti anni di esplorazioni in giro per il mondo: dai deserti africani al Sinai, dall’America del Nord al Cile, fino all’Estremo Oriente. Ma un’altra collezione ben più modesta è ospitata poco più in là sulla nicchia di una finestra, composta da tre piccoli souvenir che sono le uniche tracce rimaste di tre donne amate, figure o fantasmi la cui memoria si intreccia e sovrappone continuamente ai ricordi dei suoi itinerari. Una pigna per Francesca, con cui ha vissuto un’estate spensierata su una spiaggia nei pressi di Grosseto. Un amuleto artigianale per la giovane Arlette, conosciuta in un bar di Quimper, in Bretagna. Una pietra per Elif, incontrata in Perù ma cresciuta nel suo stesso paese natale, con la quale Raoul condivide anche il giorno del compleanno.
Tre storie d’amore molto diverse tra di loro, e che a dispetto delle affinità tematiche non devono far pensare alle sventure del collezionista di insetti del noto romanzo di Kōbō Abe, La donna di sabbia (1962), intrappolato in un villaggio tra le dune da una donna con cui comincia a convivere in una casa scavata a imbuto nel suolo, come le buche in cui i formicaleoni attirano le loro prede. Gli amori di Louper tradiscono anzi il rovescio di questa cieca possessività animalesca, sono amori fatti essenzialmente di sguardi, silenzi e reticenze, storie brevi e quasi disincarnate che nascono da coincidenze irripetibili, si consumano troppo in fretta e non resistono alla prova del tempo, benché possano convertirsi in cordiali amicizie a distanza. Passioni difficili e appena accennate, che le divergenze caratteriali acuiscono nell’intimità: «Solo un aprirsi l’uno per l’altra, per ritrovarsi racchiusi l’uno nell’altra […]. E sempre troppo fugace. Troppo lontano» (p. 82). Giulia A. Disanto osserva del resto che in francese louper «vuol dire “fallire”, “mandare a rotoli”, “sciupare occasioni”», e numerosi sono gli indizi che parlano di esperienze segnate dall’inibizione e dall’autoinganno, vissute quasi in terza persona senza mai suscitare un compiuto senso di appartenenza, alle quali fa però riscontro l’onnipresente richiamo all’orizzonte del viaggio, con le sue infinite possibilità di scoperta che si accompagnano a una benefica dissoluzione dell’io.
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