1991: Lessons from a Calf
«Con l’educazione integrata, l’orario e le materie vengono decisi giorno per giorno. L’approccio mi sembra interessante. È l’insegnante che decide, a seconda della motivazione che percepisce nella classe, che insegnerà per esempio matematica l’indomani.»
«Molti anni dopo ho parlato con alcuni di questi scolari, divenuti adulti. Mi hanno detto che a quell’epoca avevano la sensazione che io venissi nella loro scuola per motivi personali, e non per una questione di lavoro. Ecco perché mi hanno accolto in modo diverso dalle altre persone che erano venute anch’esse per filmarli. Mi avevano offerto un volto che non avevano mai rivelato in precedenza.»
1995: Maborosi
«Ricordo che a Nantes un’anziana signora mi interrogò più o meno in questi termini: “Nel film tornano degli elementi, come la bicicletta o il suono del campanello. La ripetizione dà un ritmo e l’idea che le sequenze si susseguano. Il film inizia con un sogno, e per me deve finire anche con un sogno. Ma nella scena finale, dove inizia la parte immaginaria?”. Il nostro interprete ha fatto appena in tempo a tradurmi le sue osservazioni che un altro spettatore ha risposto: “Penso che siamo nel sogno a partire dalla scena sulla spiaggia”. E un terzo: “Mi sembra che sia piuttosto dalla scena della fermata dell’autobus”. Volevo prendere la parola. In Maborosi, la sequenza in cui la protagonista sale un pendio simboleggiava nelle mie intenzioni questo ingresso nell’immaginazione. Ma gli spettatori mi hanno interrotto. Non volevano che rispondessi troppo presto. Come per far circolare meglio le opinioni fra di noi…»
1998: After Life
«Per il mio secondo lungometraggio, ho avuto un’idea contorta. Il pubblico occidentale sembrava considerare il cinema giapponese per mezzo di stereotipi? Avrei preso questi cliché in contropiede. Ho attinto così a riferimenti non asiatici. Nello specifico un film di Ernst Lubitsch, Il cielo può attendere. Si tratta di una sofisticata commedia urbana. Un uomo appena morto si ritrova alle porte dell’inferno. Per essere ammesso, deve raccontare al diavolo le azioni turpi della sua esistenza. Ho trasposto questa storia, ma nel mio scenario la trama si svolge all’ingresso del paradiso. È una nozione estranea alla cultura giapponese. Così ho iniziato a concepire il mio secondo lungometraggio.»
«Le etichette mi importavano poco. Mi sono imposto per After Life una regola d’oro: il mio film non apparteneva né alla categoria del documentario, né a quella della finzione. Era il manifesto di un’estetica della messa in scena.»
2004: Nobody Knows
«In questi sei lunghi mesi tra la partenza inaspettata della madre e la scoperta della loro situazione da parte del proprietario dell’appartamento, ciò che i bambini hanno vissuto non può essere uniformemente oscuro. Certo, conducevano un’esistenza ai margini della società. Ma la loro vita doveva nascondere tesori che oltrepassano la dimensione materiale: dei sentimenti condivisi, di gioia o tristezza, un modo di andare avanti giorno per giorno e di sperare, nonostante tutto. Dovrebbe essere possibile entrare nelle loro vite. Non osservando l’inferno delle loro condizioni da un punto di vista esterno, ma la possibile ricchezza delle loro esistenze.»
«In una sequenza i due fratelli litigano. Il maggiore colpisce un veicolo radiocomandato con cui il fratellino sta giocando. Ho girato quella sequenza senza dire al più giovane, Hiei Kimura, che Yûya Yagira avrebbe fatto questo gesto. L’ho lasciato giocare con il radiocomando, e intanto davo istruzioni a voce al più grande. Durante le riprese, Hiei Kimura si è incazzato. Ha gridato a Yûya Yagira: “Non sfogare la tua rabbia su un oggetto”. Questo era ciò che sua madre gli diceva in circostanze simili. Ho fermato la macchina da presa e mi sono scusato col bambino. Volevo che capisse. “Scusa, per filmare questa scena da lontano ho chiesto a Yûya di arrabbiarsi apposta.” Ma per mezza giornata i due non si sono parlati. In macchina, sulla via del ritorno, tutti e due guardavano fuori dal finestrino in direzioni opposte. Ayu Kitaura (nel film, la sorella maggiore) li ha guardati incredula: “Ma voi maschi siete stupidi o cosa? Era solo un gioco”. Questo episodio mi travolge di nostalgia.»
2008: Still Walking
«Mia madre era molto preoccupata per il mio futuro. Il mio nome cominciava a farsi conoscere, ma lei si interrogava sulla mia capacità di guadagnarmi da vivere con questa professione che esercitavo nel mondo del cinema. Aveva visto Maborosi e After Life, ma si ammalò prima dell’uscita di Nobody Knows. Nella sua stanza d’ospedale le ho portato un articolo che parlava della mia partecipazione al festival di Cannes. Ma credo che lei non fosse già più in grado di capirlo bene. Come avrei potuto fare? Se solo si fosse ammalata sei mesi dopo… Se solo le avessi mostrato Nobody Knows, si sarebbe rassicurata. Il mio rimorso è registrato in una battuta di Still Walking: “Nella vita, tutto accade sempre un po’ troppo tardi”. Ho iniziato a scrivere la sceneggiatura dopo aver scritto questa frase sulla prima pagina del mio taccuino.»
«Prima di dirigere Still Walking, mi sono immerso nei film di Mikio Naruse. La sua tecnica di regia ha segnato la storia del cinema giapponese. In ogni sequenza filma con un’inquadratura obliqua. In questo si differenzia da Yasujirô Ozu, che inquadra frontalmente. In questa differenza dell’angolo di ripresa, mi chiedo se non potremmo provare a stabilire un’analogia coi due tipi di calligrafia cinese, lo stile regolare (kaisho) e la scrittura corsiva (sousho). Comunque sia, a seconda dell’inquadratura adottata, la casa tradizionale giapponese non appare allo stesso modo allo spettatore. Mi sembra che Mikio Naruse inquadri obliquamente in modo che lo spazio domestico sia più leggibile per lo spettatore, e anche per dare più facilità di spostamento ai personaggi sullo schermo. Nei film di Ozu, facciamo più fatica a cogliere la posizione degli oggetti nello spazio.»
2011: I Wish
«La mia sceneggiatura resta aperta a ciò che accade sul set. Fin dai provini ho mantenuto questa idea di un personaggio il cui desiderio è quello di resuscitare il suo cane Marble, che era appena scomparso. Per il viaggio di gruppo verso lo Shinkansen di Kyûshû, porta nello zaino le spoglie del suo compagno. Come gli altri bambini, anche lui compie un percorso iniziatico. Tornato alla stazione di Kagoshima, si rende conto che questo tipo di miracolo non esiste. Ho dato al bambino le istruzioni ad alta voce: doveva scendere lo scalone della stazione, fermarsi, dare un’occhiata nello zaino e ripartire dietro ai suoi due compagni. Ebbe questa reazione: “Ma allora Marble non resusciterà?”. Gli ho detto di no, e lui, di sfuggita: “Ma… vorrei che ci fosse un lieto fine”. Dato il titolo del progetto [Kiseki, miracolo], i bambini devono aver pensato che avevo previsto alcuni miracoli nella sceneggiatura. L’osservazione su Marble mi ha spinto a modificare la scena. I tre bambini si fermano dopo pochi passi, il bambino controlla lo zaino, lo chiude e poi inizia a scendere per primo le scale. Questo semplice cambiamento nell’ordine in cui scendono simboleggia la consapevolezza.»
«Mi ricordo che un critico ha notato in I Wish un cambio di punto di vista. Secondo lui avveniva nell’ultima parte del film, che si svolge in un giardino abbandonato dove sono cresciute delle cosmee. “Fino a quel momento la storia si svolgeva nel presente, negli occhi dei bambini. In questa scena, la macchina da presa li accompagna, ma rimarrà in giardino. Li guarda scappare via. Le voci dei bambini si perdono nell’immagine del cielo. Il tempo non è più quello dei bambini, ma viene da fuori campo. È molto impressionante.” Non so dire quanto avesse ragione questo giornalista. La scena introduce nella narrazione altre temporalità, un prima e un dopo. Il giardino era pieno di cosmee seminate da persone scomparse. Ecco l’incarnazione del passato. Nella stessa scena, il futuro è rappresentato dai semi che i bambini raccolgono e poi ripianteranno. Avevo anche intenzione di descrivere una presa di consapevolezza, che si estende da ciò che si è perduto ieri a ciò che durerà domani. Avevo fatto in modo che a questo punto le linee temporali si incrociassero. Trovo fantastico che il critico potesse cogliere le mie intenzioni semplicemente notando il cambio di posizione della macchina da presa.»
2013: Father and Son
«In fase di montaggio ho tagliato una scena. Quando il personaggio di Ryota Nonomiya va a prendere al negozio di elettrodomestici il suo figlio biologico, che è fuggito, Yûdai Saiki usa una metafora: “Educare dei bambini non significa lanciare, ma ricevere”. Volevo mostrare un’opposizione radicale nel loro approccio alla paternità. Il primo padre, il businessman, incarna il lanciatore. Lancia la palla come meglio crede. Il secondo, il negoziante interpretato da Lily Franky, è il ricevitore. Prende ciò che i bambini gli lanciano. Non ho tenuto questa scena per una ragione: il personaggio di Yûdai Saiki era un po’ troppo avvantaggiato.»
«Nel film, Ryota Nonomiya gioca con sua moglie e il suo figlio biologico a fare un campeggio all’interno del loro appartamento. L’indomani, si ritrova solo a scorrere sulla sua macchina fotografica le foto scattate da Keita, il bambino che aveva cresciuto come suo figlio per sei anni. Scoppia in lacrime. Avevamo già la scena della sera prima con la coppia sul balcone dell’appartamento; pensavo non fosse necessario insistere. Ma Yôko Maki e Lily Franky credevano che questa scena della macchina fotografica dovesse essere mantenuta. Ho chiesto a Masaharu Fukuyama cosa ne pensava. Ha risposto: “Lascio a te la decisione. Però sappi che per me sarà tutto più facile se la conserviamo. Puoi anche decidere in un secondo momento.” Alla fine ho seguito il consiglio degli attori.»
(traduzioni di Matteo Maculotti)