A prima vista questo bimbo sembrerebbe una specie di Linus in miniatura, una copia del suo fratello maggiore, o meglio una Replica (Rerun), come l’ha chiamato delusa Lucy, desiderosa di una sorellina, nell’anno della sua nascita (1972). In mancanza di un nome proprio porterà sempre questo nomignolo, spesso tra virgolette, perché «tutti mi chiamano così», e per più di due decenni sarà solo una rara comparsa, nonché un personaggio che il suo stesso creatore, incerto sul ruolo da attribuirgli, finì per ritenere uno sbaglio – almeno finché il tempo non lo ricompensò con uno splendido riscatto.
Nessuna sorpresa se agli inizi il suo carattere è una miscela amorfa di spaesamento e disillusione. Nella striscia d’esordio Lucy lo porta in giardino a conoscere il mondo fuori dalle mura domestiche, e lui risponde confuso: «Tutto qui?». Nella prima gag ricorrente è bloccato sul sellino posteriore della bicicletta della madre, perennemente ansioso e terrorizzato dagli imprevisti della corsa. Il bimbo inquadrato di profilo non può scendere a terra, ma in una striscia dove gli adulti scompaiono fuori campo deve per forza affrontare le sue paure da solo, tra lunghi rimuginii e allarmi gridati al vento. Quasi sempre in questi viaggi ha lo sguardo rivolto a sinistra, e in effetti già in una delle primissime apparizioni osservava sconsolato: «Ho solo un anno e vivo già nel passato».
I giochi nel tempo libero e l’ingresso alla scuola materna, che segna l’avvio della sua stagione più fortunata, non cancellano questo senso di dipendenza e solitudine, rimarcato dalle tante composizioni asimmetriche e dai continui richiami a ciò che non c’è o non si vede, ma aprono anche nuovi spiragli sulla sua personalità. Nascosto sotto il letto per sfuggire alle lezioni, o al cospetto dell’alta scrivania del preside dopo l’ennesima infrazione, o ancora in attesa di fronte alla casa di Charlie Brown per domandargli “in prestito” il suo cane, è evidente che Replica patisce l’esclusione dal mondo dei compagni più grandi, poco propensi a coinvolgerlo nei loro giochi, eppure la sua smania di crescere e imparare – spesso a modo suo – si direbbe più forte di qualsiasi frustrazione.
Replica è senz’altro più testardo e loquace di Linus, soprattutto non appena si fissa su qualcosa, oppure quando qualcuno gli dà corda o gli fa un complimento. Anche in questo parlottare fitto che lo caratterizza, tuttavia, è un po’ come se parlasse sempre da solo, come nei suoi antichi rimuginii sul sellino della bicicletta. Ora gioca spesso con una palla da basket troppo grande e pesante, cui si rivolge con parole che sembrano destinate al suo sé più infantile, e per scacciare la solitudine desidera più di ogni cosa un cane che la madre non gli permette di avere, o in alternativa una bicicletta. Degno di nota è il suo rapporto con Lucy, che gli insegna a contare e ad allacciarsi le scarpe mossa da insospettabili premure materne. Ma è nei giochi a carte con Snoopy che emerge il suo lato più spensierato, specie quando arriva il momento di lanciare in aria alla rinfusa le carte, e l’esplosione di gioia rivela nella simmetria una perfetta complicità.
È il più giovane dei Peanuts, e l’unico dei personaggi principali a non varcare la soglia della fanciullezza. Negli ultimi anni di vita, per questo, il genio di Schulz gli suggerì di renderlo protagonista in molte situazioni strampalate, inammissibili per i suoi compagni già troppo cresciuti. Qualcuno sostiene che Replica finì per rubare la scena ai suoi fratelli maggiori: un’affermazione esagerata, che però contiene un nucleo di verità. A questo bimbo che fino ad allora era rimasto sempre un po’ in disparte, e con cui Schulz cominciò a immedesimarsi nei panni di un piccolo artista incompreso, fino ad attribuirgli le sue stesse parole, sono riservati alcuni dei momenti più ispirati che conducono all’epilogo dell’opera.
Suo è l’intervento finale nella celeberrima gag del pallone da football che Charlie Brown prova a calciare: sostituendo Lucy, Replica rompe la continuità aprendo alla dimensione del “chissà” – e di fatto emancipandosi dal destino scritto nel suo nomignolo. In una delle mie vignette preferite, in gita al museo di arte, è il solo bambino che osserva nell’angolo il quadretto di un cane (proprio come il suo disegno sarà esposto a scuola lontano dai dipinti di fiori dei compagni). Il suo commento sul pullman prima della visita, a proposito di una foto della mamma, suona ancora più ineffabile in una striscia senza adulti. Nella vignetta scelta per il commiato sta disegnando l’ennesimo fumetto, concentrato con la lingua di fuori, e dichiara di avere grandi progetti per il futuro. Ora che lo guardo meglio mi sembra di conoscerlo: vorrei provare a chiedergli il suo vero nome. È la fiducia incondizionata che ripone nel suo genio infantile, credo, a darmi l’impressione che in certi momenti, con l’attenzione necessaria, una semplice domanda possa cambiare qualsiasi cosa.