È stato pubblicato oggi su Doppiozero un interessante articolo di Alessandro Carrera sulle scritture prodotte dall’intelligenza artificiale, intitolato ChatGPT. Il punto di vista del diavolo. Vorrei soffermarmi sul modo in cui viene affrontata la questione scolastica, che è solo uno dei tanti punti toccati dall’articolo.
Scrive Carrera, dopo aver evocato il “panico” degli insegnanti di scuole elementari e medie che temono una sostituzione della macchina al pensiero umano:
E se poi l’apparizione di ChatGPT porterà alla fine del “temino” scolastico, personalmente non mi dispiacerà troppo. Gli studenti, anche i miei, che sono universitari, sanno benissimo come scrivere un finto essay, non hanno certo bisogno che glielo insegni l’Intelligenza Artificiale. Basta usare il metodo dell’amplificatio, inventato nelle scuole dei Gesuiti del 1600. Si tratta di ripetere con altre parole, in forma di risposta, la domanda posta dall’insegnante, accumulando frasi su frasi che hanno l’unico intento di ribadire che è proprio così, che le cose stanno come ha detto lei, signor professore e signora professoressa. Quante centinaia di “temini” ho letto che non facevano altro che ripetere in modo più fiorito quello che avevo chiesto io? Mai che qualcuno mi dicesse: no, non sono d’accordo per niente. Solo per quello si sarebbe meritato il voto migliore.
Mi stupisce anzitutto il fatto che Carrera prenda i suoi studenti universitari (statunitensi) come modello per parlare della scuola in generale, senza considerare le ovvie differenze che intercorrono tra bambini e ragazzi delle diverse età, sia nelle abitudini di scrittura e di pensiero, sia nei condizionamenti che l’esposizione a una tecnologia così potente e invasiva può comportare. Questa generalizzazione mi sembra purtroppo una costante dei discorsi sull’innovazione digitale a scuola: volendo sintetizzare al massimo, all’adulto che è un consumatore consapevole di tecnologia riesce difficile mettersi nei panni del bambino che sta crescendo e imparando a sviluppare in autonomia le proprie potenzialità. Ciò che per l’adulto può essere uno strumento per potenziare facoltà già acquisite, per il bambino rischia di compromettere lo stesso processo di acquisizione di queste facoltà.
Mi lascia perplesso anche il modo in cui Carrera utilizza il “temino” scolastico come una sorta di sineddoche della scrittura a scuola (già questo diminutivo, come quando a scuola si parla di “lavoretti”, fa pensare alla sottovalutazione di chi guarda le cose dall’alto). Pensando alla mia lunga esperienza da studente, e alla ben più breve esperienza da insegnante di scuola primaria, trovo questa visione riduttiva e un po’ caricaturale: non faccio fatica a ricordare temi molto retorici, che sono comunque esercizi di stile per lo scolaro, ma anche (e soprattutto!) temi dove il bambino può mettere in gioco sé stesso, le proprie riflessioni e la propria creatività. Fare di tutta l’erba un fascio non ci aiuta a comprendere la questione, ed è purtroppo un’altra costante dei dibattiti sulla scuola, spesso incentrati su slogan e visioni semplicistiche di cose che nelle realtà sono ben più complesse, soprattutto allo sguardo di chi ne fa esperienza quotidiana.
Carrera vorrebbe giustamente che i suoi studenti esprimessero nella scrittura il proprio pensiero, ma mi pare trascuri la necessità di esercitare nel tempo questa facoltà, perché possa svilupparsi gradualmente. Non si interroga sul perché molti suoi studenti non sappiano farlo, o non sappiano usare la punteggiatura. Crede che se venissero sottoposti a un input diverso (come quello di un’intelligenza artificiale) automaticamente funzionerebbero in modo migliore. Non si rende conto che in questo passaggio del testo sta pensando ai propri studenti essenzialmente come a delle macchine. E la conclusione a cui arriva è paradossale: «Non sarebbe una cattiva idea assegnare loro una domanda, fargli vedere come risponde ChatGPT e poi chiedergli di migliorare la risposta». Uno studente interessato ad affinare la propria facoltà critica diventerebbe così poco più che il revisore di un testo automatizzato. Lo studente verrebbe in questo modo espropriato del momento iniziale della sua scrittura, il momento dell’ispirazione e della raccolta delle idee.
«La prima frase è la più difficile da scrivere, poi il resto viene da sé» mi ha detto di recente un alunno molto talentuoso, un grande lettore che con determinazione sta cercando di dar voce alla propria creatività, nonostante alcune difficoltà di scrittura. Ho compreso che mi stava parlando non solo della frase più difficile, ma anche di quella più importante, dalla quale discende lo spirito del testo, l’ispirazione irripetibile del soggetto che prende la parola. Credo sia opportuno interrogarsi su cosa significhi togliere agli studenti questo momento delicato, chiedendo loro di lavorare sempre più spesso su testi già pronti. Rinunciare all’ispirazione per me equivale a sottrarre alla scrittura una sua dimensione fondamentale, e questa rinuncia è tanto più grave se coinvolge bambini e ragazzi che non hanno ancora avuto modo di consolidare certe facoltà di pensiero.
Non dobbiamo temere una completa sostituzione della macchina al pensiero umano (su questo sono d’accordo con Carrera), ma la progressiva atrofizzazione del pensiero derivante da rinunce di questo genere, che con troppa superficialità e poca lungimiranza vengono sponsorizzate come dei “potenziamenti”. Se non vogliamo che le scuole si trasformino in fabbriche di “capitale umano”, dovremmo riflettere su questa visione meccanicistica con lo stesso sguardo critico che vorremmo riconoscere nei nostri studenti.
[16 luglio 2023: una mia riflessione più ampia su scuola e intelligenze artificiali, che riprende anche alcune considerazioni di questo articolo, si può leggere qui.]