Ho letto il seguente racconto durante la mia ultima lezione di quest’anno scolastico in una quinta elementare, nascondendolo in un libro che mi ha consentito di presentarlo come una fiaba tibetana. È stata la seconda delle nostre tre letture conclusive, dopo un estratto dal capitolo 12 del romanzo Momo di Michael Ende, e prima di un altro breve racconto scritto da me per l’occasione (L’incontro segreto). Sul registro ho chiamato questa lezione conclusiva «Un mondo di storie».
Alcuni alunni avevano già letto la prima parte di questo racconto mesi fa su una finta fotocopia, durante una caccia al tesoro organizzata in classe nell’intervallo (la soluzione di un indovinello basato su una mappa letteraria della metropolitana era per l’appunto La storia infinita di Michael Ende). Tutti noi avevamo inoltre già parlato del Tibet, non solo nelle ore di geografia, ma anche durante i nostri momenti di letture e osservazioni. Un paio di mesi prima avevamo letto e commentato l’aneddoto di un maestro tibetano tratto da un libro di Chandra Livia Candiani (Il silenzio è cosa viva), e la settimana precedente ci eravamo imbattuti in un proverbio tibetano che ha accompagnato le nostre riflessioni sul mistero del tempo: «Se ti prendi cura dei minuti, non dovrai preoccuparti degli anni».
Ho scritto questo racconto per parlare di me e degli alunni che stavo per salutare, di ciò che per noi è stata la scuola e di ciò che ci ha unito negli ultimi due anni, e in particolare in quest’anno scolastico, nel quale, salvo rare eccezioni e uscite, ho potuto stare con loro soltanto un pomeriggio alla settimana. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto raccontare qualcosa di noi attraverso una storia di fantasia, e ho fatto in modo che questa storia fosse sia un dono che un piccolo scherzo.
Gli alunni hanno apprezzato molto il racconto e rintracciato numerose corrispondenze coi nostri ricordi (nonché col quadernetto-antologia che ho regalato a ciascuno), ma quando alla fine ho rivelato di averlo scritto io, la loro sorpresa è stata grande. Credo non dimenticherò mai le espressioni di stupore e gratitudine che hanno riempito l’aula in quegli ultimi minuti, e so che qualcuno, la sera stessa, ha voluto rileggere questa storia assieme ai propri genitori. Forse non è solo una fantasia l’idea che il nostro percorso di letture e osservazioni sia una storia infinita.
La storia infinita
Nelle remote regioni del Tibet viveva un monaco che aveva trasformato una grotta nella sua casa, e trascorreva il tempo a meditare nel silenzio della montagna. Un giorno alla settimana, però, si metteva un sacco sulle spalle, lasciava la sua grotta e scendeva dalla montagna al villaggio.
Era il giorno di mercato, ma il monaco non aveva monete con sé, e in realtà non aveva nemmeno bisogno di comprare alcun prodotto, perché la gente del luogo era solita offrirgli cesti colmi di vivande come omaggio per la sua visita. Il monaco accettava i doni, li riponeva nel sacco e camminava verso la fine del villaggio, dove attorno a un grande cedro un gruppo di bambini lo stavano aspettando. Non c’era la scuola in quel villaggio, così il monaco aveva pensato che sarebbe stato bello, per un giorno alla settimana, diventare un maestro.
Ogni volta che il maestro appariva, i bambini osservavano increduli la cima della montagna. E ogni volta che i bambini gli chiedevano perché faceva tutta quella fatica per scendere in un piccolo villaggio sperduto, il monaco rispondeva: «Per venire a trovare i miei discepoli», e qualche volta diceva sottovoce: «Perché questo è il giorno più felice della settimana».
Seduti all’ombra del cedro parlavano di qualsiasi cosa. I bambini raccontavano le scoperte della settimana, la notte appena trascorsa, le avventure dei loro sogni e il sorgere del sole sopra le montagne. Il maestro amava ricordare il villaggio della sua infanzia o i viaggi della sua giovinezza, e spesso raccontava a memoria storie dei tempi antichi. Quando una storia non aveva un inizio o una fine, oppure era troppo difficile da comprendere, il maestro invitava i bambini a guardare più in là, dove non arrivavano le parole. Sperava in questo modo che i bambini, crescendo, non perdessero ciò che avevano di più prezioso, ovvero la meraviglia e l’amore del mondo che si rifletteva nei loro occhi.
Impararono a scrivere, a leggere, a contare, a chiamare gli alberi per nome, ma questo era niente in confronto a certi momenti in cui il maestro diventava il loro discepolo. Cominciò una bambina che gli diede una mela. Il maestro la ripose con cura nel sacco, sopra tutti gli altri prodotti che aveva ricevuto al mercato. Poi un bambino gli donò un disegno. Il maestro lo portò da un artigiano, lo fece incorniciare e lo appese nella sua grotta. Ci fu chi gli portò un sorriso luminoso, o una domanda impossibile, altri ancora gli regalarono un “grazie” così sincero come non ne aveva mai sentiti prima, da conservare come un tesoro.
Col passare del tempo, questi gesti si fecero sempre più frequenti. Da un lato il monaco era felice, perché voleva dire che i bambini avevano imparato tante cose, grazie anche alla sua compagnia. Dall’altro però era un po’ triste, perché forse voleva dire che i suoi discepoli non avevano più bisogno di un maestro.
Un giorno, allora, il monaco portò con sé uno strano oggetto, qualcosa che al villaggio nessuno aveva mai visto prima. Spiegò ai bambini che era un libro, ma non un libro qualsiasi. Tutte le sue pagine, infatti, erano foglie intrecciate, e ciascuna di esse era completamente vuota.
Nessuna parola, nessuna figura, nessun segno, solo pagine simili ai campi immensi dell’estate, o al cielo limpido delle mattine di sole. «Il maestro dev’essere impazzito» mormorarono i bambini quando lo videro incamminarsi di nuovo verso la montagna, reggendosi a un bastone. Aveva lasciato loro il libro, chiedendo solo di conservarlo e di sfogliarlo di tanto in tanto, ma tutti sospettavano che quel compito fosse una prova da superare.
La settimana successiva il maestro non si fece vedere.
La settimana successiva chiese di poter vedere il libro, e vide che era rimasto uguale a come l’aveva lasciato. Da un lato era un po’ deluso, perché voleva dire che i suoi discepoli non avevano compreso i suoi insegnamenti, forse perché non era stato abbastanza paziente. Dall’altro però era contento, perché forse voleva dire che i bambini avevano ancora bisogno di un maestro.
«Vi darò un piccolo indizio» disse quando furono seduti all’ombra del cedro, indicando il libro. «Questa è una storia senza fine, una storia infinita. Cosa abbiamo sempre detto delle storie senza inizio e senza fine?»
«Di guardare più in là» rispose una voce, «dove non arrivano le parole».
«Ma come si fa a leggerla? Non c’è niente.»
Alcune voci sussurrarono insieme: «Bisogna prima scriverla».
Il maestro sorrise. Tante volte i bambini avevano scritto insieme a lui, sotto la sua guida, e ora era certo che anche in sua assenza avrebbero fatto un buon lavoro.
La settimana successiva il maestro non si fece vedere.
La settimana successiva osservò i bambini, e vide che in fondo ai loro occhi c’era una piccola ombra.
«Di cosa avete paura?» domandò loro.
Il bambino più piccolo si fece avanti: «Ho provato a scrivere qualcosa, ma ogni volta che giravo pagina ne appariva un’altra, una nuova pagina spuntata dal nulla come per una stregoneria. Ho pensato che non riuscirò mai a finire questo compito».
«Anch’io ho provato a scrivere qualcosa,» annuì una bambina, «però faccio molta fatica. Le lettere vengono tutte storte, per non farle tremare devo stringere forte la penna. Mi sembra di incidere la pietra».
Qualcun altro disse che era una fatica inutile, perché non si era mai sicuri di ciò che c’era scritto. Una voce nell’ombra osservò che non ha senso iniziare qualcosa che non si può completare.
Continuarono a parlare, finché qualcuno non ebbe un’idea: su quelle pagine avrebbero potuto fare anche dei disegni, o raccontare pensieri e fantasie. Alcuni pensarono a una poesia, altri a un fiore. Quando scoprivano di avere avuto la stessa idea di un compagno, i loro occhi brillavano sorridenti.
«È una storia infinita, ma non bisogna per forza scriverla tutta. E poi si fa un po’ alla volta, quando arriva il momento giusto. Una storia infinita ha molta pazienza.»
Al calare del sole il maestro se ne andò con una promessa: avrebbe continuato a dare agli alunni degli indizi da decifrare, e grazie a questi indizi e all’aiuto del tempo sarebbero stati in grado di scrivere la loro storia. Gli alunni decisero di custodire il libro sotto una pietra, all’ombra del cedro, e ogni volta che sentivano il soffio del vento o il canto delle foglie lo aprivano e rimanevano in attesa.
Alla fine dell’estate alcuni di loro partirono per la città, dove cominciarono a frequentare una grande scuola. Portarono con sé alcuni fogli del libro, e ogni volta che pensavano al villaggio e alla montagna non vedevano l’ora di raccontare a tutti un nuovo capitolo della loro storia infinita.