«Il nostro paese non mancava affatto di scuole quando bastava un pezzo di gesso ed il nudo pavimento per insegnare a scrivere ai ragazzi; oggi ci sono montagne di lavagne e di matite ma poche scuole. Questa tendenza a preoccuparsi dei fatti non essenziali più che di quelli essenziali, la si può vedere ora in ogni aspetto della nostra vita. I nostri antenati si preoccupavano ben poco delle formalità sociali, e molto invece dei doveri sociali, noi invece facciamo il contrario. Essi consideravano il mobilio parte della ricchezza, non della civiltà. I custodi della civiltà a quei tempi avevano ben pochi mobili nelle loro case, e davano la felicità al paese rendendo la povertà rispettabile. Se potessimo, mentre siamo giovani, apprezzare a fondo l’ideale della vita semplice, potremmo se non altro arricchirci di alcune capacità: la capacità di sedere a terra, di indossare vestiti poveri, di mangiare cibo semplice e di ottenere i migliori risultati possibili col minimo sforzo possibile. Non sono capacità di poco conto, e ci vuole non poco sforzo per acquistarle.
La semplicità, la naturalezza e la tranquillità spirituale sono indici di civiltà. L’eccesso e l’ostentazione sono indici di barbarie. La vera grandezza brilla di luce propria e non perde nulla anche in ambiente umile. Questa è la semplice verità che bisogna far capire ai nostri ragazzi in ogni modo possibile, che bisogna istillare nella loro mente. Essi devono apprenderla non come un precetto morale, che non può apportare loro alcun bene, ma attraverso il vivido esempio di una vita semplice che devono vedere ogni giorno nella loro scuola. Se non lo imparano, prenderanno in odio il lavoro manuale, e considereranno umiliante sedersi a terra. Ancor peggio, disprezzeranno i loro antenati e fraintenderanno il messaggio che viene loro dall’antica India. […]
I doveri di un maestro, oggigiorno, non richiedono altro che una piccola parte della sua mente e del suo spirito, e potrebbero essere compiuti quasi altrettanto bene da un grammofono con un minimo di cervello al quale fosse legata una canna. Ma lo stesso maestro dedicherebbe tutta la mente e il proprio spirito al servizio dei suoi allievi se si richiedessero da lui i doveri del guru.
È vero che egli non potrebbe offrire nulla più di quanto gli permettono le sue capacità, ma è altrettanto vero che si vergognerebbe di offrire meno. Per fare un contratto bisogna essere in due, e se si desidera il meglio bisogna richiederlo. Solo una piccola parte delle forze mentali e spirituali del nostro paese operano oggi attraverso i nostri maestri, ma una parte molto più grande opererà invece attraverso i guru se il nostro paese desidera realmente questo.
Oggi le forze economiche costringono il maestro ad andarsi a cercare gli allievi, invece, nell’ordine naturale delle cose, dovrebbero essere gli allievi a cercare il maestro. Oggi il maestro è un commerciante, un venditore di istruzione in cerca di clienti e nessuno si aspetta di trovare affetto, rispetto, devozione o qualsiasi altro sentimento nell’elenco delle merci che egli offre in vendita. Ma, nonostante le sfavorevoli condizioni odierne, nel nostro paese esistono ancora alcuni maestri capaci di passar sopra alle considerazioni economiche per il loro valore interiore, e uno di questi maestri dovrebbe essere elevato alla condizione di guru. Egli non mancherebbe di rendersi conto, una volta diventato un guru, che può acquistare credito soltanto se riesce a infondere nei suoi allievi la vita tratta dalla sua stessa vita, accendere la loro lampada col suo sapere, e renderli felici col suo affetto. Dando ai suoi allievi cose che non si possono comprare o vendere e anzi sono senza prezzo, egli acquisterà una devozione che non dipende affatto dal timore della punizione, una devozione abbastanza profonda per essere chiamata religiosa e abbastanza genuina per essere definita naturale. Se anche sarà costretto ad accettare uno stipendio per poter vivere, darà un particolare valore al proprio compito offrendo molto più di ciò per cui è pagato.»
Rabindranath Tagore, “Il problema dell’educazione” (1906), in Id., La civiltà occidentale e l’India, Torino, Bollati Boringhieri 2020, pp. 50-53.
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«L’isola di Robinson Crusoe mi ritorna alla mente quando penso a un’istituzione dove si può apprendere, senza ostacoli, la prima grande lezione dell’unione perfetta dell’uomo e della natura, non soltanto mediante l’amore ma mediante la comunione attiva. Occorre tener presente il fatto che amore e azione sono soltanto mezzi con i quali si può raggiungere la perfetta conoscenza e che lo scopo della conoscenza non è la pedanteria, ma la saggezza; un’istituzione di questo tipo non deve accontentarsi di addestrare le nostre membra e la nostra mente a essere pronte per qualsiasi eventualità, ma a vincolarsi alla risposta tra la vita e il mondo, a trovare l’equilibrio della loro armonia che è saggezza. In tale luogo la prima importante lezione per i fanciulli dovrebbe essere improvvisata, perché tutto quanto è già pronto è stato bandito per poter offrire continue occasioni di vagliare la propria capacità con risultati improvvisati. Voglio chiarire che ciò non significa dare semplicemente una lezione di vita, bensì di vita creatrice. Poiché, anche se la vita diventa complessa, basta che nel suo centro vi sia una personalità vivente, perché questa vita abbia un’unità di creazione, porti con grazia perfetta il proprio peso e non sia una semplice aggiunta a un numero di fatti che servono unicamente a ingrossare una folla.
Vorrei poter dire che nella nostra scuola abbiamo raggiunto questo sogno, ma abbiamo appena incominciato a dare ai bambini la capacità di amare la natura e di trovare in essa la libertà. Poiché l’amore è libertà ci libera dalla necessità di pagare con la nostra anima beni che non hanno alcun valore. […]
L’inconscio dei bambini è molto attivo e, come l’albero, ha la capacità di trarre il proprio alimento dall’atmosfera che lo circonda. Per loro l’atmosfera è infinitamente più importante delle regole e dei metodi, delle attrezzature, dei libri di testo e delle lezioni. La terra trova la maggior parte della propria sostanza nel suolo e nell’acqua; ma, se mi è permessa un’espressione figurata, trova invece lo stimolo necessario solo nell’atmosfera. È questa che suscita nella terra la possibilità di rispondere con colori e profumi, musica e movimento. […] Nella mia scuola ho cercato soprattutto di creare un’atmosfera, è stato il compito principale che mi sono proposto. Bisogna che nelle nostre istituzioni scolastiche le nostre facoltà siano nutrite, affinché la mente acquisti libertà e la fantasia divenga adatta al mondo dell’arte, e sorga in noi comprensione per i rapporti umani.»
Rabindranath Tagore, “La scuola di un poeta” (1926), in Id., La civiltà occidentale e l’India, Torino, Bollati Boringhieri 2020, pp. 213-218.