21/07/24

Richiami dalla foresta. Il mio vicino Totoro


Come è nato Totoro? Per prima cosa dobbiamo immaginare un paesaggio di montagna, un prato d’erba dorata e il soffio del vento che annuncia l’arrivo di un personaggio da fiaba. Il signor Gatto Selvatico ha le orecchie appuntite e lo sguardo trasognato, indossa un soprabito giallo, simile ai jinbaori dei samurai, e si erge maestoso su due zampe di fronte a un bambino, mentre ai suoi piedi strillano centinaia di ghiande litigiose.

Il bambino che sta leggendo la storia rimane estasiato da questa apparizione perché lo immagina alto due metri, gigantesco, e prova una punta di delusione quando vede che le illustrazioni raffigurano una creatura non più grande di una volpe. È probabile che il bambino si trovi a scuola, perché questo racconto di Miyazawa Kenji (Le ghiande e il gatto selvatico) venne incluso dal secondo dopoguerra nelle antologie scolastiche giapponesi, ma è anche possibile pensare al piccolo Hayao nella casa di campagna a Utsunomiya in cui visse alcuni anni, mentre la madre malata di tubercolosi era ricoverata in ospedale, proprio come nel film la madre di Satsuki e Mei.

Una pagina di Le ghiande e il gatto selvatico, primo racconto della raccolta di Miyazawa Kenji Chūmon no ōi ryōriten (“Un ristorante pieno di richieste”, 1924), illustrata da Kikuchi Takeo.

Il Gatto Selvatico che in questa scena surreale fa da giudice per la disputa delle ghiande parrebbe uscito dalla penna di Lewis Carroll, più che dalla moderna letteratura per l’infanzia giapponese di inizio ‘900, ma quando si siede tronfio davanti al bambino, quest’ultimo «non poté fare a meno di pensare che sembrava proprio un’immagine del Grande Buddha di Nara», un altro dettaglio che col tempo deve essersi sedimentato nella coscienza di Hayao. Anche nello sguardo assorto e nell’aria imperturbabile di Totoro, in effetti, Miyazaki riconobbe un aspetto fondamentale della sua caratterizzazione, fin dal momento in cui, attorno alla metà degli anni ’70, cominciò a elaborare dei disegni per un progetto di libro illustrato che sarebbe poi confluito nel film.

Disegni preparatori per un progetto di libro illustrato, dal volume Hayao Miyazaki Image Board (1983).

«Il Totoro che disegnavano gli altri non era mai somigliante» ricorda il regista, in quanto «tutti lo disegnavano con un’espressione come se stesse guardando qualcosa». Al contrario, lo sguardo di Totoro non è rivolto a nulla in particolare perché abbraccia ogni cosa, il che rende la sua presenza misteriosa e vagamente ieratica, sempre rassicurante, mai minacciosa. E anche nel suo sorriso, poi accentuato nella geniale invenzione del Gattobus, più che il ghigno arguto del Chesire Cat carrolliano rivive il riso bonario e semplice caro al folklore giapponese, il sorriso degli sciocchi, dei monaci e degli dei.

Totoro non si esprime per mezzo di enigmi; a differenza del Gatto Selvatico non è un animale parlante, ma uno spirito silenzioso, i cui unici versi sono vocalizzi profondi. Il suo linguaggio è già lo scroscio della pioggia e il soffio del vento nelle inquadrature silenziose che modulano la storia, un respiro benevolo e ancestrale pronto a manifestarsi alle giuste condizioni. È stato notato il legame tra il film e un’antica fiaba di ispirazione buddhista, I Jizō con il cappello di paglia, incentrata sul valore della compassione e su uno scambio simbolico paragonabile al dono dell’ombrello che Satsuki presta a Totoro. Quando la piccola Mei si perde e si ferma a un crocevia, in effetti, le sei statue di Jizō che la proteggono prefigurano in silenzio il lieto fine, l’arrivo imminente del gigante amico.

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